Regia: Stefano Simone. Soggetto: dall’omonimo racconto di Gordiano Lupi. Sceneggiatura: Francesco Massaccesi, Sebastiano Giuliano, Matteo Simone. Musiche: Luca Auriemma. Fotografia e Montaggio: Stefano Simone. Trucco/Effetti speciali: Mariangela Spagnuolo. Durata: 86’. Genere: Drammatico. Formato: 16:9 widescreen (1.77:1). Audio: Stereo PCM. Origine: Italia. Anno: 2014. Produzione: Indiemovie. Interpreti: Michael Segal (Massimo adulto), Libero Troiano (Massimo giovane), Filippo Totaro (Giocatore di scacchi), Antonio Potito (Barbone), Gianni Lauriola (Magnaccia), Giulia Rita D’Onofrio (Madre di Massimo), Luigia Ilenia Ciociola (Fidanzata di Massimo), Michela Mastroluca (moglie di Massimo), Marco Di Bari, Matteo Perillo, Nicola Ciociola.
Stefano Simone è un regista pugliese che seguo da tempo e che rappresenta una voce interessante nel panorama del cinema indipendente italiano. La parola indipendente nel suo caso non è usata a sproposito, perché i budget su cui può contare sono davvero modesti, contrariamente ad altri casi di ricchi indipendenti.
Gli scacchi della vita è un lavoro più maturo e complesso dei precedenti, basato su un soggetto tratto da un mio vecchio racconto, rielaborato e rimpolpato in fase di sceneggiatura dai bravi Francesco Massaccesi, Sebastiano Giuliano e Matteo Simone, senza tradire il senso della storia. Simone affronta - forse per la prima volta - i sentieri impervi del cinema d’autore, cita Ingmar Bergman (Il settimo sigillo) e usa il genere per affermare concetti importanti come la scoperta di se stessi e il senso della vita, ma anche l’esperienza del dolore, il cambiamento, la solitudine e l’emarginazione. Nel precedente lungometraggio - Week-end tra amici - avevamo intuito certe potenzialità narrative, nascoste in una struttura da cinema di genere, un noir duro ai limiti dell’horror.
In breve la trama. Massimo è un architetto sposato con una scrittrice che viene ricoverato in ospedale dopo essere stato investito da un’auto; la moglie per intrattenerlo legge la bozza del suo nuovo romanzo: Gli scacchi della vita. Un flashback onirico conduce il protagonista in una dimensione soprannaturale dove un singolare personaggio lo invita a disputare una partita a scacchi che segue regole pericolose. Ogni volta che Massimo perde un pezzo è costretto a rivivere un episodio doloroso della sua vita. Partono nuovi flashback che riproducono immagini dell’adolescenza, un difficile rapporto con la madre prostituta, la morte del padre, il conseguimento della laurea, il lavoro, il suicidio materno, una fidanzata perduta, un magnaccia ucciso per disperazione, il connubio stretto con un vecchio barbone giocatore di scacchi. La partita finisce proprio al termine del dolore, quando il protagonista compie una catarsi totale rivivendo errori e momenti cupi della vita. Riconosce persino la madre, parla di un rapporto perduto, delle incomprensioni, come se si trovassero entrambi in uno straordinario aldilà. Al risveglio tutto sembra un sogno, ma forse non è così, perché un particolare - che non sveliamo - induce a formulare diverse ipotesi, in un finale girato con eccellenti tempi tecnici.
Gli scacchi della vita presenta spunti interessanti come stile di regia, singolari scelte di ripresa e sequenze in panoramica, campo lungo e primo piano, fotografia lucida e intensa, che cambia colorazione e sfumature. Perfetta la scelta degli ambienti degradati teatro dell’azione, tra mare e miseria, verrebbe da dire, in un crescendo pasoliniano. I due personaggi principali sono interpretati dagli ottimi Michael Segal e Filippo Totaro, ben calati nei rispettivi ruoli: intenso quello di Massimo, sopra le righe il giocatore di scacchi che riceve l’avversario in un capannone di periferia. Simone evita gli stereotipi e - pur citando Il settimo sigillo - non ambienta la scena della partita a scacchi con la morte su una scogliera in riva al mare, né in un paesaggio surreale o in un giardino, ai piedi di un albero (come nel mio racconto). Il personaggio del giocatore è straordinario, caratterizzato da una risata folle ed enigmatica, afferma di non essere Dio ma neppure il diavolo, e rifugge da ogni semplificazione. L’interpretazione teatrale ed eccessiva di Totaro è a dir poco perfetta, finisce il film e senti riecheggiare la sinistra risata, ricordi la risposta sibillina alla domanda di Massimo quando chiede dove sia finito: “Sei tra il nulla e l’addio”. Il film è strutturato in flashback sapientemente montati a incastro, quando si narra l’infanzia di Massimo cambia attore, ma la resa del personaggio non ne risente molto, perché Libero Troiano - il giovane interprete - è convincente ed espressivo. Molte riprese con la camera a mano conferiscono una sensazione di straniamento e raccontano più di tante parole i turbamenti adolescenziali del ragazzo, alle prese con vicissitudini dolorose. Rumori di fondo e suono in presa diretta fanno il resto, così come la colonna sonora di Luca Auriemma si conferma una scelta vincente. Musica ritmica, sonorità moderne, tamburi, breakdance, accompagnano le immagini e scandiscono lo scorrere del tempo. Troppo lunghe alcune parti composte da musica e immagini, che ripetono concetti già espressi e finiscono per apparire ridondanti. Al contrario, risultano interessanti le sequenze liriche girate sul lungomare di Manfredonia, introspettive al punto giusto, intense nel descrivere il tormento psicologico del ragazzo. L’incontro tra Massimo e il barbone è una felice scelta di sceneggiatura, anche perché gioca a scacchi come il personaggio incontrato nella realtà onirica. Viene da pensare che lo strano giocatore potrebbe essere una proiezione fantastica della mente sconvolta che ricorda l’adolescenza. Il film non è uniforme. Quando sono in primo piano i due personaggi principali che disputano la partita per la vita, presenta ritmo e fluidità recitativa. Purtroppo i personaggi femminili (moglie, madre del ragazzo e fidanzata) limitano la scorrevolezza della narrazione. Il personaggio del magnaccia è tratteggiato in maniera troppo monocorde, così come sono da rivedere alcuni dialoghi madre - figlio e la recitazione impostata di Giulia Rita D’Onofrio. In ogni caso la pellicola si fa guardare, girata a un ritmo sincopato, tra musica e azione, stringati dialoghi (a parte le sequenze con il giocatore di scacchi) e pochi tempi morti. Il finale lancia un messaggio cristiano: “La vita vale un po’ di dolore”, è importante giocare non tanto per vincere quanto per capire la necessità del dolore. Subito dopo vediamo un caleidoscopio di ricordi che scorrono all’indietro come una pellicola che si riavvolge su se stessa. Rivediamo madre e figlio di fronte, un dialogo tra una presenza surreale che proviene dal regno dei morti e un uomo distrutto dal ricordo del passato. Straordinario il finale che resta indelebile nella memoria per un ricercato effetto sorpresa.
Stefano Simone continua a far ben sperare, raccontando per immagini un noir di provincia, psicologico e introspettivo, dal taglio fantastico e soprannaturale. Riferimenti sicuri: Fernando di Leo, molti autori contemporanei di mafia-movie televisivi (Garrone, Sollima…), le periferie degradate di Pasolini, la lezione di Bergman, la fotografia fredda e asciutta di Friedkin, ma anche sentori surrealisti che citano Buñuel (L’angelo sterminatore). Gli scacchi della vita è un buon lavoro, sceneggiato e diretto con cura, che avrebbe potuto essere ottimo se tutti gli attori avessero fornito interpretazioni a livello di Segal e Totaro. Siamo curiosi di vedere Stefano Simone all’opera con un budget degno di questo nome. Gli scacchi della vita è prodotto con poco più di niente e da un punto di vista tecnico regge il confronto con lavori costati decine di migliaia di euro.
Gordiano Lupi
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