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Alcuni lettori mi hanno pregato di spiegare meglio il senso della frase che apriva uno dei miei ultimi post: «Ogni parallelismo tra Matteo Renzi e gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia patria – scrivevo – corre il serio rischio di rivelarsi sghembo dopo le prime due o tre analogie». Credo nella Provvidenza? Ignoro il rischio che comporta ogni parallelismo in sede storica? Cos’è che rende Renzi un caso a parte rispetto a «gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia patria» che ho dato per inteso abbiano tra loro un maggior numero di analogie? Queste – pressappoco – le domande che accompagnavano le richieste di chiarimento. E dunque. No, non credo nella Provvidenza, ma suppongo fosse chiaro il riferimento alla locuzione usata da Pio XI per Benito Mussolini, e dunque alla perifrasi del ruolo che il θεoς απo μηχανης ha nella tragedia greca: compare all’improvviso, in virtù dei suoi poteri sovrumani mette ordine con fare risoluto a uno stallo della trama e la soluzione sembra soddisfare tutti, o quasi. Occorre tuttavia riflettere su un dato: se l’Uomo della Provvidenza è tale quando torna di qualche utilità nel farsi soluzione di un conflitto del quale non si riesce a prevedere la durata, né lo sviluppo, né l’esito, lasciando presagire solo il logorarsi delle forze in campo, con ricadute negative sull’intero corpo sociale, è giocoforza che egli assuma tratti costanti che sono indipendenti dal contesto. E dunque no, non ignoro il rischio che comporta ogni parallelismo in sede storica, ma ritengo che analogie tra l’uno e l’altro Uomo della Provvidenza siano possibili, anzi, direi che esse vadano costantemente alla conquista del rango di veri e propri marcatori genetici della eccezionalità del loro carattere, facendo da architrave alla costruzione mitopoietica di un destino. Quand’anche siano surrettizie, dunque, le analogie sono cercate, prima, e ottenute, poi, nel tentativo più o meno deliberato di suggerire che l’Uomo della Provvidenza sia una delle risorse intrinseche alla communitas intesa come organismo. Che le analogie siano di fatto o si propongano come tali, dunque, non fa differenza: esse sono in gioco come credenziali di un carisma sempre uguale (straordinaria abilità nella comunicazione, notevole capacità di manovrare gli individui e di affascinare le masse, incrollabile autostima, piglio autoritario, ecc.) che di tanto in tanto è chiamato ad incarnarsi in un tizio dai modi spicci che dinanzi al nodo di Gordio non si scoraggia e lo scioglie recidendolo di netto. E allora cos’è che non consente di andare più in là di poche analogie nel tentativo di costruire un parallelismo tra Renzi e Berlusconi, o tra Renzi e Craxi, o tra Renzi e Mussolini? Semplice a dirsi: Renzi arriva nel momento in cui all’Uomo della Provvidenza non è più richiesto né un profilo ideologico, né una dottrina politica, né una visione del futuro, né un progetto di società. Renzi può muoversi al di fuori delle categorie che la postmodernità sembra avere archiviato per sempre. Le enormi differenze che caratterizzano la crisi dello Stato liberale, la crisi del Movimento operaio, la crisi della Prima repubblica non impediscono di individuare un pur esile tratto comune tra il ventennio di Mussolini, il ventennio di Craxi e il ventennio di Berlusconi: l’azzardo era nel chiedere la piena e indiscussa facoltà di governo in cambio di un’idea di società. L’azzardo di Renzi sta nell’identica richiesta ma in cambio della mera governabilità. Renzi non ha un profilo ideologico, né una dottrina politica, né una visione del futuro, né un progetto di società, per la semplice ragione che oggi non ce n’è bisogno per ottenere consenso. D’altronde, la crisi della democrazia e la deriva populista che ne è conseguita hanno svuotato il consenso del significato che gli attribuivano l’adesione ad un’analisi e ad una proposta, la concordanza sui modi e sui mezzi, quell’idem sentire che prima era sentito come sorte e in tempi più recenti ha preso forma di narrato. In tal senso, per ottenere ciò che vuole, a Renzi non è necessario neanche un consenso che abbia i modi della partecipazione fanatizzata. Il suo modello di populismo non è quello dal basso, che cerca di comporre le contraddittorie pulsioni che salgono da un popolo ridotto a plebe, ma quello dall’alto (la letteratura di scuola marxiana gli ha dato la definizione di neobonapartismo), che momento per momento si fa forte della pulsione predominante per incrementare la presa di dominio che può fare a meno di sostenersi su quelle che l’hanno preceduta, dunque senza doversi porre il problema di risponderne. Ecco perché non ha alcun senso pensare di poter togliere credibilità all’offerta di Renzi coll’inchiodarlo a ciò che ha detto due giorni, due mesi o due anni fa, tanto meno col segnalare le continue prove di quanto sia a digiuno di ogni cultura che non sia quella televisiva, men che meno col caricaturizzarne i tratti del maneggione senza scrupoli: il non aver in alcun conto l’onore che si fonda sulla parola data e sulla coerenza tra il dire e il fare, la sua grassa ignoranza, il suo prestarsi con compiaciuta strafottenza ad ogni genere di critica sono i suoi punti di forza, e perfino avere una faccia da cretino gli torna utile da arma micidiale. La dictatura cui mira (e uso il termine latino per fare chiaro riferimento al suo significato nel diritto romano) è quella che trova ragione nell’urgenza dell’eterno presente che è in ciascuna delle figure retoriche di cui grondano i suoi discorsi, che non a caso sono privi di ogni congrua articolazione e di un intellegibile costrutto. In due parole, Renzi è il trionfo del vuoto che divora tutto ciò che sfiora. Non ce ne libereremo facilmente, comunque non nel modo col quale ci siamo liberati degli altri Uomini della Provvidenza. In quel modo non conviene neppure provarci.
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