di Alessandro Tinti
È nell’ultima settimana di luglio che l’amministrazione Obama si appresta a portare a termine i negoziati per la definizione del Trans-Pacific Partnership (TPP), l’ambizioso accordo di libero scambio che propone l’eliminazione delle barriere tariffarie e non-tariffarie e l’adeguamento degli standard commerciali in una vasta area dell’Asia-Pacifico, associando l’economia statunitense a quella di altri undici Paesi – Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. Pur intrapreso dal precedente esecutivo guidato da George W. Bush, la conclusione del TPP potrebbe rappresentare uno dei lasciti maggiori della presidenza Obama in tema di politica estera, poiché espressione di quel riposizionamento strategico nello scenario del Pacifico che la squadra di governo democratica annunciò quale nuovo concetto di riferimento della presenza internazionale americana. Il voluminoso e complesso trattato non solo accredita la progressiva regionalizzazione della politica commerciale statunitense, ma esplicita pure l’offerta ai membri APEC di un modello d’integrazione economica alternativo a quello intessuto dalla diplomazia cinese. Prima ancora che strumento di contenimento dell’egemonia di Pechino nel Sud-Est asiatico, dal punto di osservazione di Washington il TPP è però anzitutto motivato dall’estensione delle intese economiche, di cui saranno firmatari i Paesi produttori di circa il 40% della ricchezza mondiale: a tal proposito, si tenga presente che nel 2013 la vendita di beni e di prodotti agricoli alle controparti del TPP ha pesato rispettivamente per il 44% e l’85% delle esportazioni statunitensi in tali settori [1]. Oltre alla diminuzione dei dazi, l’accordo regionale comporterà la liberalizzazione di comparti nazionali impermeabili all’ingresso di capitali americani, come pure la concertazione di regole e procedure comuni (ad esempio in materia ambientale, di tutela del lavoro, di protezione dei diritti di proprietà intellettuale, di accesso ai mercati, di regolazione delle transazioni finanziarie) che riformeranno i sistemi di governance dell’area a più elevato tasso di crescita del globo [2].
Tuttavia, la delegazione statunitense ha dovuto affrontare tanto le resistenze mosse dai partner regionali (in primo luogo il Giappone) rispetto all’impegno di aprire e integrare settori tradizionalmente retti da politiche protezionistiche, quanto dal fuoco amico delle correnti liberal in seno al Partito Democratico che hanno ostacolato la concessione del mandato congressuale per la chiusura dell’accordo multilaterale. Mentre le trattative sembrano tendere verso l’ultima e decisiva fase negoziale, che si svolge in sinergia con l’altro tavolo di discussione aperto con Bruxelles sulle clausole del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), conviene fare il punto sull’andamento dei lavori, sulle posizioni emerse e sui corollari strategici della partnership nel Pacifico al fine di comprenderne la gravità nella traiettoria perseguita dalla potenza americana.
Lo sviluppo della convergenza regionale e l’ostacolo dell’opposizione interna
La prima pietra dell’accordo è stata posta da Singapore, Nuova Zelanda, Cile e Brunei nel 2006 con la firma dell’allora Trans-Pacific Strategic Economic Partnership (noto con la sigla P4), cui successivamente tra marzo e dicembre del 2008 Stati Uniti, Australia, Perù e Vietnam mostrarono la volontà di accedere. Insediatosi alla Casa Bianca, nel novembre del 2009 Barack Obama rilanciò il proposito di patrocinare la stesura di un accordo regionale per facilitare lo sviluppo degli scambi commerciali e l’integrazione dei sistemi produttivi delle maggiori economie che si affacciano sull’Oceano Pacifico. All’intento programmatico di ruotare il fulcro della superpotenza nello scenario asiatico corrispondeva anche il rilancio delle esportazioni attraverso un pacchetto di misure (denominato National Export Initiative) che si prefiggeva l’obiettivo di raddoppiare il commercio con l’estero al fine di sostenere la ripresa dell’occupazione [3]. Ai margini dell’incontro ministeriale del forum APEC a Honolulu nel novembre 2011 la garanzia statunitense riusciva infine a imprimere l’inaugurazione formale del processo negoziale per l’allargamento della membership del P4, aperto – dopo l’inclusione della Malesia nel 2009 – anche a Messico, Canada e Giappone [4].
Bilancia commerciale USA-Paesi del Pacifico – Fonte: Congressional Research Service (CRS)L’ampiezza delle materie interessate dal trattato e l’eterogeneità delle economie coinvolte hanno da allora richiesto la convocazione di numerosi round di colloqui, sia a livello bilaterale che multilaterale. È tuttavia la polarizzazione di posizioni antitetiche trai portatori di interesse entro i confini americani che ha rischiato di pregiudicare l’avanzamento del TPP. La protesta d’influenti gruppi di pressione e dei sindacati ha infatti trovato ascolto presso l’ala sinistra del Partito Democratico dietro la tesi per cui il trattato di libero scambio potrebbe esercitare effetti negativi sull’occupazione e sulla competitività del settore manifatturiero in virtù del minore costo del lavoro delle economie asiatiche. In questo senso, è stato frequentemente ricordato il precedente del North American Free Trade Agreement (NAFTA) sottoscritto nel 1993 dall’amministrazione Clinton, laddove la delocalizzazione della produzione automobilistica in Messico incentivata dall’accordo di libero scambio danneggiò gli operai dell’industria di Detroit. L’adesione allo schieramento anti-TPP di personalità eccellenti nel campo democratico, quali la senatrice Elizabeth Warren e il capogruppo alla Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi, e il prudente smarcamento di Hillary Clinton, tra gli artefici in veste di Segretario di Stato del “pivot to Asia” [5] ma pronta a contendere le prossime elezioni presidenziali del 2016 con una campagna incentrata sul tema dell’equità sociale, hanno indebolito l’autonomia presidenziale a tal punto che il 12 giugno l’esecutivo Obama ha incassato l’inaspettata bocciatura di due provvedimenti congiunti: un disegno di legge (denominato Trade Adjustment Assistance, TAA) per tutelare in termini di assistenza e formazione i cittadini americani che perderanno il proprio impiego a causa dell’implementazione dell’area di libero scambio, cui era stato condizionato il passaggio della Trade Promotion Authority (TPA) che conferisce all’esecutivo la facoltà di predisporre la bozza finale di un trattato commerciale senza incorrere in emendamenti del Congresso, cui spetta unicamente l’approvazione finale del testo. Senza l’autorizzazione del TPA, noto anche come “fast track”, il mandato negoziale dell’amministrazione Obama sarebbe stato sottoposto ai veti dei gruppi di pressione e avrebbe presumibilmente ostacolato l’appianamento delle divergenze con gli interlocutori regionali sulle questioni più delicate dell’accordo. Per questa ragione, dopo la risicata approvazione nella camera bassa di una versione rivista del TAA il 18 giugno, gli uomini del Presidente hanno lavorato allo scopo di formare una maggioranza qualificata bipartisan all’interno del Senato, dove il 25 giugno la delega del “fast track” è infine passata con sessanta voti a favore e trentotto contrari.
Superato il dibattito parlamentare, il governo degli Stati Uniti si trova così nella condizione di poter avviare i colloqui conclusivi per l’istituzione di uno spazio economico in gran parte modellato secondo gli auspici e gli interessi strategici della superpotenza.
Il TPP nella politica commerciale statunitense e il confronto con il Giappone
Dal 2001 gli Stati Uniti hanno siglato dodici accordi di libero scambio con diciassette Paesi. L’amministrazione Obama ha dato continuità ai negoziati impostati dal governo Bush, chiudendo nel 2011 le trattative con Panama, Colombia e Corea del Sud. Tuttavia, il progetto di saldare la centralità economica di Washington su due spazi paralleli a vocazione regionale nel Pacifico e nell’Atlantico costituisce un balzo qualitativo nella politica commerciale statunitense. Da questo punto di vista il TPP corteggia gli snodi principali del “Pacific Rim”, che complessivamente intercetta oltre il 60% del volume commerciale degli Stati Uniti. Se già la superpotenza aveva precedentemente raggiunto intese separate con sei Paesi poi ricompresi entro i confini del TPP (Australia, Canada, Cile, Messico, Perù e Singapore), l’allineamento generale nel versante dell’Asia-Pacifico comporta effetti maggiori della liberalizzazione delle transazioni di beni e servizi, poiché invita le parti contraenti al riconoscimento di una disciplina comune in una molteplicità di settori spesso trascurati o non intaccati dagli accordi bilaterali.
Accordi di libero scambio USA – Fonte: CFR (Source: US Trade Representative & US Dept. of Commerce)Malgrado ciò, è stato propriamente l’ingresso del Giappone nelle trattative ad accrescere il valore strategico del TPP. Seconda maggiore economia dell’area dopo quella nordamericana, Tokyo esprime assieme a Washington circa l’80% del prodotto aggregato della futura area di scambio. Ancor più, il Giappone è l’unica potenza asiatica che ha accolto l’indicazione statunitense di non associarsi alla Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIB nell’acronimo inglese) con sede a Pechino e dunque la presenza nipponica nel TPP è essenziale per la proposta di un modello d’integrazione economica autorevole e alternativo a quello cinese. Per queste ragioni, il confronto bilaterale con la delegazione giapponese, che pure ha aderito ai colloqui solo tardivamente nel marzo 2013, è presto divenuto il principale banco di prova per la praticabilità e l’efficacia dell’accordo.
Eppure, sin dalle prime battute il raggiungimento di una soluzione di compromesso si è rivelato un obiettivo esigente e gli Stati Uniti sono stati costretti ad abbandonare la linea dura sull’abbattimento categorico delle tariffe giapponesi, che la rappresentanza americana aveva fissato con fermezza già nelle consultazioni preliminari del 2012. Il governo di Shinzo Abe è stato irremovibile sulla posizione di mantenere condizioni di privilegio per i prodotti di punta del settore agroalimentare (riso, frumento, zucchero, carne bovina e suina), dapprima richiedendone l’esclusione dallo schema contrattuale e poi ipotizzando la determinazione di quote nazionali. Contro le misure protezionistiche rivendicate da Tokyo, i delegati americani hanno controbattuto la proposta altrettanto provocatoria di differire su un periodo di trent’anni il taglio delle tariffe nel mercato automobilistico. In questa delicata partita a scacchi, se il Giappone ha fatto valere il dato di un sistema economico non più vincolato alle vendite sul mercato statunitense ma anzi in grado di moltiplicare le relazioni commerciali con i vicini regionali (in particolare quelli oggi non interessati ad accedere alla nascente partnership tracciata dalla Casa Bianca, come Cina, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Thailandia), da parte loro gli Stati Uniti hanno fatto leva sulla stretta alleanza in materia di sicurezza, allertata dalle latenti rivendicazioni territoriali cinesi e rafforzata in occasione della visita del Primo Ministro Abe a Washington tra aprile e maggio di quest’anno mediante la pubblicazione di nuove linee guida cui improntare la collaborazione militare. Le dichiarazioni di Barack Obama sulla tutela della stabilità nel Mar Cinese Meridionale e del Segretario di Stato John Kerry sull’impegno “blindato” verso la sicurezza e la sovranità dell’alleato asiatico non hanno però agevolato il superamento del regime protezionistico giapponese. Le indiscrezioni raccolte dalla stampa riportano che gli Stati Uniti acconsentirebbero all’eccezione di una tariffa nel settore del riso in cambio dell’aumento sensibile delle importazioni di riso statunitense per circa duecentomila tonnellate annuali, contro le cinquantamila replicate dal governo di Tokyo, che tuttavia sembra distante dalle condizioni segnate dai negoziatori di Obama sui dazi in entrata per l’esportazione di autoveicoli e parti di automobili giapponesi nel mercato americano [6].
Il passaggio del “fast track” ha tuttavia dato nuovo impulso alle trattative, che nella prima metà di luglio hanno conosciuto una fase importante. Precisamente, il 10 luglio Hiroshi Oe, diplomatico nominato dall’esecutivo Abe nella delegazione che sta conducendo i negoziati, ha comunicato che gli ultimi incontri bilaterali hanno ridotto la distanza tra le parti sulle diatribe nei settori dell’auto e dell’agroalimentare e che i punti in sospeso saranno affrontati definitivamente nel corso del prossimo appuntamento di Maui (Hawaii) dove tra il 24 e il 27 luglio saranno presenti le rappresentanze di rango ministeriale di tutti i dodici Paesi coinvolti. Se l’amministrazione Obama confida di raggiungere l’intesa conclusiva sul TPP proprio in quest’occasione, il Ministro delle politiche economiche e fiscali Akira Amari ha decisamente alzato la posta in gioco, affermando che quello incombente dovrà essere l’ultimo incontro ministeriale e che il consenso di massima sulle disposizioni del trattato potrà raggiungersi anche senza la disponibilità di tutte le parti coinvolte. L’atteggiamento di risolutezza e urgenza segnalato dall’esecutivo Abe – che lamenta gli indugi e la dilazioni di Nuova Zelanda e Canada, con quest’ultimo restio ad accettare l’imposizione di vincoli nel mercato lattiero-caseario – è un invito esplicito affinché gli Stati Uniti stringano i tempi per l’adozione di una bozza finale e indirettamente suggerisce il superamento delle incomprensioni a livello bilaterale. Certamente, a muoversi sullo sfondo della sollecitazione nipponica verso la conclusione e la ratifica del TPP è l’intento di sfidare i progetti contestualmente avviati da Pechino.
La competizione per divenire fulcro dei mercati regionali e globali
La centralità nelle connessioni infrastrutturali e nei mercati internazionali è un tratto uniformante che dirige la competizione odierna tra le grandi potenze e il criterio qualitativo che ha suggerito alla dirigenza americana l’apertura commerciale nel versante asiatico. Alle ambizioni statunitensi, tuttavia, fanno da contraltare le analoghe mire espansionistiche dei poli economici dell’area e, in particolare, di quello della Repubblica Popolare Cinese. In questo senso, Pechino ragionevolmente s’immagina vertice di una rinnovata “Via della Seta” cui il sostegno finanziario dell’AIIB ha dato notevole slancio e concretezza, attraendo investimenti e incrementando le esportazioni dei comparti industriali frenati dalla sovrapproduzione interna. La “Belt and Road Initiative”, annunciata dal Presidente cinese Xi Jinping nell’autunno del 2013, prevede infatti la realizzazione d’imponenti infrastrutture viarie e marittime nel Sud-Est asiatico, in Asia Centrale e Meridionale, Medio Oriente ed Europa, spingendosi sino in Oceania e nel continente africano. Inoltre, la Cina è promotrice della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), area di libero scambio cui stanno lavorando il blocco commerciale dei dieci membri ASEAN e altri sei Paesi – Australia, Giappone, India, Corea del Sud, Nuova Zelanda e per l’appunto Cina. Come il TPP, il RCEP è un accordo a vocazione regionale che tuttavia ricompone i rapporti dell’area secondo un’architettura distinta da quella proposta da parte statunitense. Per converso, l’esclusione della Cina dal processo negoziale condotto dall’amministrazione Obama fornisce una chiara indicazione di metodo sulle prospettive immediate dell’intesa. Pertanto, all’avanzamento dei suddetti trattati è associata la vocazione egemonica delle due superpotenze economiche. Se gli Stati regionali guardano con decisione anche a numerose e complementari ipotesi d’integrazione – non solo il RCEP, ma anche il Free Trade Area of the Asia-Pacific (FTTAP) e le disparate convergenze bilaterali e trilaterali –, per gli Stati Uniti la questione del TPP si pone dunque essenzialmente nei termini di un energico inserimento nella configurazione delle nascenti relazioni di reciprocità e dipendenza economica nell’Asia Pacifico. Il rischio paventato dall’esecutivo democratico (e condiviso dall’opposizione repubblicana, peraltro maggioritaria nei due rami parlamentari) è che un atteggiamento d’inazione rispetto al protagonismo cinese e alla crescita strutturale delle economie asiatiche potrebbe comportare la marginalizzazione del mercato statunitense, laddove la contrazione della ricchezza sul versante atlantico già impone di riconsiderare il rafforzamento dei partenariati in altri scenari.
Secondo questa chiave di lettura, il valore commerciale del TPP è inseparabile dalle ragioni di sicurezza. Del resto, la valutazione delle minacce esterne ha spesso ispirato le politiche commerciali avallate da Washington, come ben esemplificato dalla lunga stagione che dal secondo dopoguerra è stata contraddistinta dall’ascesa e dalla caduta del confronto bipolare, che incoraggiò prima il compattamento del blocco occidentale e poi il tentativo di estendere il modello liberale a livello globale. Si potrebbe obiettare che la fondazione di un regime commerciale preferenziale contrapposto a quello sorretto dall’influenza cinese (e lo stesso contenimento del temuto revisionismo attribuito alla politica regionale di Pechino) non implichi necessariamente la messa in sicurezza degli interessi strategici. Tuttavia, l’addensamento dei rapporti commerciali nel Pacifico è funzionale ad aumentare la credibilità dello spostamento delle risorse politico-militari nel teatro asiatico. Ancor più significativamente, il perseguimento del TPP indica la volontà di mantenere salda la supremazia nella governance del sistema internazionale, adeguando le norme e le istituzioni del modello statunitense a vettori di cambiamento altrimenti disallineati dalle disposizioni della prima potenza mondiale.
Se il vertice APEC di novembre 2015 probabilmente dirimerà lo stallo sugli accordi commerciali oggi in via di composizione, il vicino summit di Maui mostrerà la disponibilità dei partner a riconoscere coma prioritaria la soluzione sostenuta dagli Stati Uniti.
* Alessandro Tinti è OPI Adjunct Fellow
[1] Office of the U.S. Trade Representative, https://ustr.gov/tpp/overview-of-the-TPP
[2] Office of the U.S. Trade Representative, https://ustr.gov/trade-agreements/free-trade-agreements/trans-pacific-partnership/tpp-issue-issue-negotiating-objectives
[3] U.S. Department of Commerce, International Trade Administration, http://trade.gov/nei/nei-fact-sheet.asp
[4] Ian F. Fergusson, Mark A. McMinimy, Brock R. Williams, The Trans-Pacific Partnership (TPP) Negotiations and Issues for Congress, Congressional Research Service, 19 novembre 2014, pp. 2-3.
[5] Hillary R. Clinton, America’s Pacific Century, in “Foreign Policy”, n. 189, vol. 1, 2011.
[6] Aya Takada, Japan, U.S. Seek Trade Pact Deals on Rice, Auto Parts, Bloomberg, 19 aprile 2015.
Photo credits: Wikimedia Commons/2010
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