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Go Dani.

Creato il 02 marzo 2015 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Dani, per i suoi compagni, per la squadra, per gli amici. E’ breve, è facile, anche da gridare in corsa, in cima ad una salita. Lui è Daniel Teklehaimanot. L’ho visto spesso in fuga o in azioni solitarie: i riccioli nascosti sotto il casco, il volto scuro, lucido di sudore e le gambe magre, da gazzella. Ma ammetto che la sua storia non la conoscevo, almeno fino a quando ho letto un pezzo, bellissimo tra l’altro, sul ciclismo africano, scritto da Leonardo Piccione per un blog sportivo. Mi ha colpito questo ragazzo eritreo innamorato follemente della sua terra così come della bicicletta. Prima che la Orica Green Edge gli offrisse il sogno del mondo professionistico nel 2011, Daniel era stato operato al cuore per una tachicardia che, secondo i medici, gli avrebbe bloccato la carriera agonistica. Di contro, i test rivelarono un’ incredibile potenza sotto sforzo, oltre che un’invidiabile forma fisica. Cuore, bicicletta, muscoli. A volte non vanno allo stesso ritmo, eppure c’è qualcosa che li incastra perfettamente. Forse è il destino, forse siamo noi.
Forse è quel serbatoio piccolo piccolo di forza che raschiamo quando siamo al limite.
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Una, due volte. Scatta sempre lì, Daniel, al culmine del GPM. Lugano giù in fondo e un crocchio di gente che applaude tra le case silenziose e una cascina nel sole con due ruote di carro appese al muro antico. Per due volte ha tentato di andarsene da solo e alla fine ce l’ha fatta. Non è certo una cosa facile. Questo è un GP che va bene per i velocisti, e anche per i finisseur. Si gioca tutto all’ultimo chilometro e il gruppo, con le fughe, non è mai troppo clemente.
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Le strade cambiano, nel ciclismo, e sono i corridori a dettare questo mutamento, si piegano al carattere, alla forza e anche al coraggio. Un po’ come la gente. C’è un rapporto tra chi corre e chi guarda, sconosciuti che si capiscono nell’istante del passaggio. Quel passaggio, l’ultimo in solitaria, per Daniel è quasi da brividi. Lui e il pubblico, le gambe che mordono e tentando di prendersi qualche secondo in più. Quando di chilometri ne mancano pochi, i secondi sono briciole nel bosco, di quelli che nelle fiabe aiutano a ritrovare la strada di casa. Briciole che guidano al traguardo e che svaniscono lente e costanti, fino all’ultimo passaggio in città.
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Il gruppo se lo rimangia appena dopo il suono della campanella. Il tempo per ringraziare, per alzare le mani dal manubrio e indicare quello che c’è scritto sulla maglia a strisce bianche e nere: MTN Qhubeka. La sua squadra. La sua Africa. Ogni terra è bella agli occhi del viaggiatore che la vede per la prima volta: così forse è stato per lui, prima con l’Europa e poi con l’Italia. Ma le radici sono un’altra cosa. “Elastici” ha detto una volta Davide Van De Sfroos, corde che si tendono e poi riportano a casa. La sua Africa. Daniel ogni tanto deve tornare in Eritrea. In quella terra ha radici profonde, ne sente il canto, anche da lontano. Terra di sole, di occhi scuri e profondi, di gente che va in bici per strade polverose sotto la calura del giorno. Forse è lì che affonda anche il coraggio che ha in corsa. Forse sono piccoli affluenti che corrono verso le sue gambe da gazzella. 

A Lugano c’è ancora la volata, come da copione. Vincitore: Niccolò Bonifazio. Troppa fame aveva quel ragazzo, era quasi scontato. Ma Daniel sul podio c’è salito lo stesso, altissimo su quel primo gradino, mentre ritira il Gran Premio della Montagna. E’ roba per gente tosta. Una coppa, un trofeo, una statuetta che ti ricorda la fatica, la paura, la speranza mischiata al sudore e al mal di gambe. Un piccolo oggetto sacro.

Giù da quel podio trova un gruppetto di ragazzini che gli corrono incontro. “Dani, Dani!” gli gridano. Sorridono e sono felici, gli si aggrappano al collo, lo abbracciano. Lo indicano ai fotografi mentre immortalano quella festa: “He’s Dani! My friend Dani!

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Lui ride, si lascia abbracciare e non dice niente. Qualche tempo fa, proprio in Svizzera, gli avevano detto che aveva una gamba più corta dell’altra e che quella tachicardia sarebbe stato un ostacolo grande. Il più grande. Da allora ne ha fatta di strada e ancora ne farà. Questa è la risposta a quella diagnosi. La sua risposta. Con questo pezzetto d’Africa che gli salta al collo ed è orgogliosa di lui. Perché non si è arreso. Perché quelle gambe da gazzella sono state più forti di un cuore impazzito.
Go Dani, go.
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