Le chiamano “tragedie del mare” perché non hanno il coraggio di chiamarle “tragedie dell’uomo”. Perché è più facile attribuire all’inclemenza degli elementi la responsabilità delle catastrofi, è un meccanismo che serve ad assolvere un’intera società capace di mandare al governo una compagine di nazisti, di bere il caffèllatte la mattina presto davanti a una diretta che racconta di un “incidente” al largo di Lampedusa, di 250 “dispersi” in mare, limando le parole affinché diventino il più asettiche possibile. La società del dolore muta pelle nel momento esatto in cui il dolore non fa più audience, quando diventa un fastidio e non più l’oggetto di una morbosa attenzione collettiva. Una nazione civile, una società progredita, dovrebbe sentirsi onorata di essere considerata un oggetto del desiderio. Eppure sono quasi sedicimila le persone che hanno trovato la morte nel Mediterraneo negli ultimi vent’anni mentre tendevano le braccia verso quel desiderio. Dopo la Bosnia si tratta della guerra che ha provocato più morti in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Guerra, sì, perché di questo si tratta. Il terzomondismo che andava tanto di moda negli anni Ottanta ha lasciato il passo, negli ultimi due decenni, a una lotta armata dichiarata informalmente ai paesi del terzo mondo. Una guerra mai notificata dalle diplomazie, ma resa effettiva e concreta perché combattuta contro gli uomini più nudi della terra, quelli che non possiedono niente se non le proprie ossa da gettare su una zattera in pasto al mare. Coi governi in carica nei paesi del Nord Africa si lucra e ci si fanno affari, coi popoli si fa la guerra. Questa è la nuova dottrina economica e sociale a cui si affida l’Europa nel nuovo millennio. Good Morning Lampedusa.
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