Se l’intento di “grandi fotografi grandi narratori” era quello di presentare l’opera dei maestri della fotografia come “narratori di storie attraverso le immagini”, si può dire che, in ambito italiano, Mario Giacomelli (Senigallia, 1°agosto 1925 – Senigallia, 25 novembre 2000) debba essere considerato come il “narratore” per eccellenza, perché tutto il suo lavoro di ricerca si è sempre svolto attorno a temi molto precisi, sviluppati anche nel corso di parecchi anni, fino a costruire delle vaste narrazioni che potremmo leggere come “romanzi fotografici”.
Nato in una famiglia povera, a dieci anni rimane orfano di padre. La madre, rimasta vedova con tre bambini di cui Mario è il maggiore, trova lavoro come lavandaia presso l’ospizio per anziani di Senigallia, dove spesso porta con sé i figli, ai quali non viene mai negato un piatto di minestra alla mensa. Questo luogo avrà una profonda influenza sia sulla sua carriera fotografica, sia sulla sua vita personale.
A tredici anni inizia a lavorare come apprendista in una tipografia di Senigallia, dove impara a stampare di tutto, comprese le fotografie che lo affascinano in modo particolare, mentre scrive poesie e dipinge, utilizzando tutti i materiali che riesce a procurarsi qua e là.
Nel 1950, venticinquenne, riesce ad aprire una propria tipografia, grazie soprattutto all’eredità ricevuta da un’anziana ricoverata all’ospizio che, ignorata dai familiari, preferisce lasciare a lui i propri soldi nella speranza che possa realizzare i suoi progetti per il futuro.
Nel 1953 acquista una macchina fotografica, che curiosamente resterà sempre la stessa per tutta la vita (una leggenda vuole che continuasse a usarla anche quando era tenuta insieme dal nastro adesivo), e inizia a fare i suoi primi scatti: immagini colte sulla spiaggia di Senigallia, di cui una, intitolata “L’approdo”, diventa celebre partecipando a diversi concorsi.
Da questo momento in poi, Giacomelli destina all’arte fotografica tutto il suo tempo libero, ma senza cessare mai di occuparsi in primo luogo della tipografia, dove tra l’altro esegue in modo molto personale anche la stampa delle proprie immagini, perché per lui il lavoro in camera oscura è fondamentale come lo scatto iniziale, e a volte persino di più.
Sono fotografie quasi sempre in bianco e nero (solo anni dopo userà saltuariamente il colore), molto contrastate, con la grana della pellicola in evidenza e i neri estremamente saturi.
Vengono tutte fornite di un titolo, esattamente come se fossero quadri o altre espressioni artistiche, ma soprattutto inquadrate in progetti a lungo termine, perché Giacomelli sceglie subito di raccontare delle storie.
La prima di queste storie, e forse per lui la più rilevante, nasce nell’ospizio di Senigallia che aveva già avuto tanta importanza nella sua vita, dove si reca per anni, realizzando i capitoli di una lunga narrazione: “Ospizio”(1955), “Vita d’ospizio”(1956-57), “Perché”(1959), fino a “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”(1955-1968), riprendendo il titolo di una famosa poesia di Pavese.
Negli stessi anni fonda l’associazione Misa, che si propone di superare le polemiche sulle presunte divisioni dei fotografi del tempo fra astrattismo e neorealismo, e realizza due serie d’immagini a Scanno, paese abruzzese dai forti contrasti cromatici meravigliosamente trasferiti nei suoi bianchi e neri, e a Lourdes; queste serie diverranno famose: in particolare, la serie “Scanno” gli procura una celebrità internazionale nel 1963, quando viene acquistata dal MOMA di New York.
I soggetti dei suoi racconti fotografici passano da “Un uomo, una donna, un amore”(1960) a “Mattatoio”(1961), che coglie in modo molto crudo la fine degli animali destinati al macello, senza dimenticare il “Carnevale” a cui si dedicherà a più riprese per tutta la vita.
Ma il tema che forse più d’ogni altro ha reso Giacomelli famoso nel mondo è quello dei seminaristi, realizzato attraverso una lunga frequentazione del Seminario e diventato “Io non ho mani che mi accarezzino il volto” (1961-1963).
La serie viene interrotta dopo che alcune foto, fatte per un concorso pubblicitario per una marca di sigari, nelle quali tutti i personaggi ritratti - a partire da sua madre per arrivare ai seminaristi - avevano un sigaro in bocca, scandalizzano gli ambienti della curia, che gli proibisce l’accesso al Seminario: questo però avviene dopo che ha già scattato le celebri immagini dei “pretini” impegnati a giocare nella neve, divenute poi quasi un simbolo della sua arte fotografica per il forte contrasto tra il bianco della neve e il nero delle vesti talari.Molte sono anche le serie d’immagini ispirate a opere letterarie, da “A Silvia”e “L’infinito” di Leopardi a “Passato” di Cardarelli, da “La mia vita intera” di Borges a “Ritorno” di Caproni, che insieme a quelle sulla natura, il mare e il lavoro della terra costituiscono una produzione a dir poco sterminata, di cui una parte resta tuttora inedita.
Dopo aver ottenuto premi e riconoscimenti di ogni tipo nel mondo, Mario Giacomelli muore a Senigallia il 25 novembre del 2000, anno che curiosamente temeva e che in precedenza si era augurato di non vivere.
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