Prima di cominciare a parlare di Gravity ci sono un paio di cose che vorrei precisare. Innanzitutto, dovete sapere che guardare un qualsiasi film di ambientazione spaziale in compagnia del mio giovane Padawan è un inferno! Tanto per farvi capire, il giovane Padawan è innamorato dello spazio… uno di quelli che vive appiccicato ai documentari di genere, il cui film preferito è Apollo 13, uno che si infervora ogni qual volta si accenna a sbarchi sulla Luna, si emoziona al solo menzionare Marte, e cose così… Ora, siccome voi siete delle persone super perspicaci, avrete subito intuìto che di fronte ad un titolo come Gravity in questa casa si sia aperto uno squarcio gigante.
Alla fine di tutte le discussioni, comunque, l’unico commento che rimane da fare è uno e solo uno: non c’è veridicità scientifica che tenga, davanti ad un capolavoro di pura arte cinematografica com’è Gravity, e se a dispetto di tutte le premesse lo ha ammesso anche il giovane Padawan un motivo ci sarà…
Ben venga l’artificio della storia e la fantasia degli eventi, quando ci troviamo a confrontarci con un’esperienza visiva unica e totalizzante, con uno spazio che è protagonista ed antagonista assoluto della scena, con un’emozione straziante e viscerale che ci lascia senza fiato.
Senza nulla togliere all’ottimo Clooney e alla sublime Sandra Bullock, tremendamente brava nel dar vita ad un personaggio femminile straordinariamente forte, è nella regia di Alfonso Cuaròn e nel comparto tecnico che Gravity trova i suoi veri protagonisti.
E’ qui che Cuaròn dichiara al mondo tutta la sua visione e la sua genialità, guadagnandosi tutta la mia ammirazione ed i miei applausi. La sua capacità di gestire un’impostazione autoriale nettissima e di fonderla magistralmente ai mezzi e alle tecnologie utilizzate ci lascia veramente senza fiato, con effetti speciali totalmente piegati al servizio dello spettacolo ultimo destinato al grande schermo.
Ancor più eccezionale è la perfetta simmetria tra l’abilità nei movimenti di camera e il mood della pellicola, laddove l’alternanza tra campi lunghissimi e primi piani diviene ben più che mera tecnica.
La trasformazione è immediata e produce un’esperienza di un’intensità disarmante per lo spettatore, che si ritrova a fluttuare in uno spazio immenso e claustrofobico, disperso nel nulla assoluto e costretto in una morsa di tensione dentro i minuscoli spazi delle tute e delle cabine.