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Grecia, elezioni col ricatto

Creato il 17 giugno 2012 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus 

Attenti, non vale più il monito di Antigone: non combattere battaglie che non sono le tue battaglie. Siamo in guerra, il nemico è implacabile e coeso e compatto e dobbiamo esserlo anche noi. Così io oggi voto Syriza, che – facciamo come se fossimo dentro all’Antigone – nella contesa tra le vecchie famiglie reali richiama il coro all’azione, a trasformarsi in popolo perché ribellione, coraggio e speranza sostituiscano la paura. Con una tempestività che non sorprende, l’ex premier Lukas Papadimos, esponente di punta della tecnocrazia di scuola neoliberista che ha trascinato la Grecia dentro il cratere, per dirla come il Papademos nostrano, ha comunicato a autorità e cittadinanza che le casse dello Stato saranno completamente vuote a partire da domani e che dal 20, tre giorni dopo le elezioni, s’inizierà ad andare in rosso, e dunque non si potranno pagare né stipendi né pensioni, se è vero che per le spese correnti servono almeno 3 miliardi al mese.

Le armi del terrore e del ricatto si addicono alla cupola sovranazionale e agli esecutori dei suoi ordini, motivati a smantellare quello che resta degli edifici di principi e valori democratici, a sgretolare le impalcature sempre più esili di diritti garanzie, a appropriarsi violentemente della sovranità di stati e popoli.
Ma in questo caso l’allarme è l’istantanea delle condizioni della Grecia annichilita da tre anni di litòtia così si chiama là il rigore, termine più affine all’indigenza che alla temperanza, di tagli inesorabili agli stipendi, alle pensioni e alla che non è più in grado di garantire né gli interventi programmati né i farmaci, minato dalle imposizioni della Banca Centrale e Fondo Monetario con una ulteriore discesa del Pil di diversi punti, con una forte riduzione delle entrate: si sa che le riscossioni vengono benignamente sospese in periodo elettorale e le attività produttive si stanno ormai arenando.

La tremenda allegoria greca, profetica ed emblematica non lascia dubbi sugli effetti della cura imposta dall’Europa e dal Fmi: Paese bombardato, l’economia in collasso con aziende chiuse; salari da fame; disoccupazione dilagante; file interminabili al collocamento e alle mense dei poveri; gente che fruga nei cassonetti; altri licenziamenti in arrivo; tasse iperboliche sulla casa e sfratti; beni comuni in svendita, un debito contratto e confermato dai suoi governanti di sempre nell’interesse della finanza internazionale. Ma a differenza di un paese travolta da una guerra, in Grecia non c’è in vista alcuna “ricostruzione”, o “rinascita”, “ripresa”; ma solo una dègringolade ineluttabile, un fallimento che è stato procrastinato solo per portare a termine il saccheggio del paese e, se possibile, il salvataggio delle banche che detengono o di quelle che hanno assicurato quel debito, alimentato dalla corruzione e dall’evasione fiscale, mai ostacolate, anzi conservate gelosamente, protette, dalle dissennate Olimpiadi del 2004 (costate oltre un decimo del Pil), dall’improvvido acquisto di armi, che la Grecia è costretta a comprare e pagare a Francia e Germania come contropartita della bonarietà europea, per importi annui che arrivano al 3 per cento del Pil.

Nel caso la fosca evocazione non bastasse per significarci le inquietanti affinità e la certezza che la loro battaglia è la nostra, aggiungiamo la pressione del patto di stabilità, un ceto dirigente incapace senza una visione di futuro che non sia solo la sua coazione a ripetersi senza rinnovarsi. E quel che resta di una sinistra tradizionale, cui piace la critica, l’insurrezione e la rivoluzione, purchè avvengano in luoghi remotissimi, nelle pagine dei libri o sul web, convertendosi con indolente noncuranza al realismo dell’ineluttabilità del mercato, all’insostituibilità del capitalismo, alla inevitabilità dell’austerità.
Ha ragione Slavoj Žižek, parla della Grecia e alla Grecia perché anche noi intendiamo: “la mappa politica del Paese è chiara ed esemplare. Al centro c’è un solo partito, con due ali, destra e sinistra, Pasok e Nuova Democrazia. È come, che so, la Cola che è o Coca o Pepsi, una scelta che non è una scelta. Il vero nome di questo partito, se si mettono insieme Pasok e Nd, dovrebbe essere qualcosa, penso, come Nmced, Nuovo movimento ellenico contro la democrazia”.
Là come qui c’è chi mette la democrazia nel nome, negli slogan, sui manifesti e sui titoli di giornale, ma vuole una democrazia dove con voto i cittadini si limitino a confermare quello che pochi altri incaricati e delegati diranno loro di fare. Vuole una concertazione, ma la vuole – sempre per citare Žižek, come nei dialoghi tardi di Platone, dove un ragazzo parla tutto il tempo e l’altro dice solo, ogni dieci minuti, «per Zeus, è così!».
Per questo oggi è come se votassi Syriza, che non è un miracolo, è un normale tentativo, una speranza di un movimento che è uscito dalla comoda posizione di resistenza marginale e ha dato la disponibilità a assumersi la responsabilità di andare a uno scomodo potere. Quelli contro i quali la rivista Forbes, ha scritto un articolo dal titolo «Dare alla Grecia quello che merita: comunismo», nel quale riassume i contorni della sentenza inappellabile dei padroni europei e mondiali: «Quello di cui il mondo ha bisogno, non dimentichiamolo, è un esempio contemporaneo del comunismo in azione. Quale miglior candidato della Grecia? Buttatela fuori dall’Unione europea, interrompete il flusso libero di euro e ridategli le vecchie dracme. Poi, state a guardare che succede per una generazione».

Non siamo la Grecia, temo. Pare che da noi nessuno meriti di essere punito esemplarmente perché tenta una soluzione e chiama i cittadini a sperare una speranza, a rendere possibile l’impossibile.


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