Il governo greco aveva chiesto sei mesi di tempo, ma l’haircut della Troika (Bce, Fmi, Commissione Ue) li ha ridotti di un terzo. Centoventi giorni, dunque, come il termine entro il quale – a decorrere dalla fine dell’esercizio precedente – una società deposita solitamente il proprio bilancio. Perché, nonostante i proclami della campagna elettorale, adesso il governo Tsipras dovrà procedere non solo a una «revisione dei conti», valutando quello che può diventare cassa in tempi rapidi, ma anche – e soprattutto – a un vasto piano di riforme che Syriza aveva sempre allontanato come fosse lo sterco del demonio.
Innanzitutto c’è quello che mette d’accordo l’estrema sinistra ellenica e la tecnocrazia europea: la lotta a evasione fiscale e corruzione. Sulla sponda occidentale dell’Egeo sperano che questi interventi riescano a liberare le energie sopite di un’economia sempre più stagnante, ancora gravata dal fardello di un debito spropositato (175% del Pil). E che magari facciano dimenticare i vent’anni prima della crisi, quando il settore pubblico – profondamente «inquinato» sotto diversi punti di vista – spendeva senza limiti per tenere in piedi un sistema clientelare; e quando le buone performance dell’economia nazionale – per motivi sempre riconducibili a una cronica facilità di aggirare le regole e rimanere impuniti – non si accompagnavano quasi mai a un gettito altrettanto sostenuto.
Poi ci sono le misure che avevano consentito a Tsipras di cavalcare l’ondata di malcontento prodotta dalla crisi (e – secondo la rappresentazione delle ali estreme della politica greca – dalle politiche di austerità): buoni-pasto ed elettricità gratis per i meno abbienti, insieme a un fisco più amico dei debitori con la possibilità di rateizzare quanto dovuto e il divieto di attuare sequestri conservativi sulla prima casa. Che il governo di Atene, nell’elaborare questo versante «sociale» del pacchetto di riforme, si sia davvero ispirato alla situazione di finanza pubblica? Può sembrare una battuta, ma non lo è. La Grecia deve svariati miliardi alla «comunità internazionale» (cioè a diverse istituzioni, ma soprattutto ai cittadini stranieri) ed è ricca di asset che in passato erano stati sull’orlo della dismissione, come la televisione pubblica, o che presto verranno comunque – seppure in parte – privatizzati, come il porto del Pireo. Sul fronte interno, per adesso, la legislazione ellenica favorisce i detentori di passività. Saprà imboccare il senso contrario, in quanto a rapporti con gli altri Paesi? O per esempio gli italiani, il cui credito verso Atene raggiunge (e forse supera) i 40 miliardi di euro, troveranno le stesse difficoltà in cui nei prossimi mesi incorrerebbe la banca greca che volesse escutere il mutuatario? Poi c’è il totem di tutti i governi pendenti a sinistra: l’aumento del salario minimo. Una misura che da un lato espelle dal mercato del lavoro la manodopera meno qualificata, dall’altro – come sarebbe intuitivo – rafforza il potere d’acquisto di chi ne è beneficiario, e che proprio per questo rischia di produrre effetti inflazionistici. Avrà ragione Tsipras nel credere che questo provvedimento possa dare respiro ai suoi concittadini strozzati dalla crisi, o il cavallo di battaglia di Yanis Varoufakis – il sanguigno ministro economico, esponente di Syriza – prima o poi si scrollerà di dosso l’improvvisato cavaliere?
Infine, il pacchetto di riforme più genuinamente marchiate Troika. In molteplici campi la Grecia è simile all’Italia: «ce lo chiede l’Europa» vale spesso anche per loro. Soprattutto con riguardo al settore pubblico: l’esecutivo di Tsipras avrebbe volentieri dato il via a una nuova infornata di assunzioni, convertendo in contratti a tempo indeterminato numerose posizioni «precarie»; ma l’esperienza passata, unita al decisionismo con cui gli interlocutori hanno affrontato il problema, ha riportato l’Ellade a più miti consigli. Anzi: faremo qualcosa, ha promesso Atene, per rendere più efficiente la nostra pubblica amministrazione; e ridurremo la burocrazia. Se questo semplice proposito si trasformasse presto in realtà, sarebbe davvero una rivoluzione copernicana. Di più: consisterebbe nell’onesta ammissione di colpa da parte di una classe politica che, sebbene profondamente rinnovata, mostra comunque una certa continuità con la storia recente.
Complessivamente, questo «accordo» (guai – secondo Tsipras – a chiamarlo memorandum, come l’intesa firmata dall’ex premier Samaras) allontana la prospettiva di una drammatica rottura dell’euro. Il cosiddetto Grexit – l’uscita ellenica dalla moneta unica – ha perduto gran parte della sua consistenza, e non fa più paura a nessuno. Non al Parlamento tedesco, che – rassicurato dal ministro Schäuble sul carattere temporaneo e limitato delle concessioni ad Atene – ha approvato l’accordo a larghissima maggioranza. Non sembra neppure spaventare Francoforte, anche perché – piuttosto – la Bce ha dato una mano alla trattativa dichiarandosi disposta a concedere fondi (di propria iniziativa però, o nell’ambito del Meccanismo unico di vigilanza) al comparto bancario ellenico, sebbene soltanto in circostanze «eccezionali» come quelle di crisi degli intermediari finanziari.
Molti osservatori hanno letto questa conclusione delle trattative fra Atene e Bruxelles come una sconfitta della linea di Syriza, intenzionata a imporre all’Europa un nuovo corso nei rapporti bilaterali e – soprattutto – a tornare indietro rispetto a qualunque provvedimento di austerity. A ben guardare, invece, la Troika ha concesso forse non molto, ma certamente al di là di quanto fosse sua intenzione. Quattro mesi di tempo non sono i sei chiesti da Varoufakis e nuovi dipendenti pubblici non potranno essere assunti, ma è pur vero che – alla fine – solo una piccola parte delle riforme è improntata al rigore fiscale. Tsipras intendeva varare leggi «sociali», e potrà farlo. Addirittura, non in maniera unilaterale: in virtù di un accordo internazionale.
Quelle presentate dall’esecutivo di Atene, bisogna ricordarlo, sono poco più che linee-guida. Andranno tradotte in adeguati strumenti legislativi nei prossimi mesi. Del tempo comunque prezioso, che la repubblica ellenica userà per reperire i fondi necessari alla restituzione di quanto dovuto. Questa è una buona notizia per i creditori (che, come ricordato, sono anche italiani). Se le politiche di Syriza si riveleranno dannose per l’Ellade, saranno gli elettori a stabilirlo. Per adesso l’euro è salvo; l’Unione è salva; la stabilità internazionale è salva. In Grecia deficit e debito sembrano comunque destinati a ridursi: se si andasse avanti lungo la strada tracciata, sarebbe difficile che nuove turbolenze finanziarie provengano dalla penisola ellenica. Il timer della bomba attica sembra essersi fermato, ed è quello che conta.