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Grimus. Salman Rushdie

Creato il 23 febbraio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

di Iannozzi Giuseppe

“Ero Joe-Sue, indiano axona, orfano, segnato alla nascita da un nome ambiguo perché il mio sesso era rimasto incerto fino a qualche tempo dopo, vergine, fratello minore di una femmina selvaggia che si chiamava Cane da Penna e aveva una paura matta di perdere la propria bellezza: cosa ironica, perché non era bella. Era anche il mio ventunesimo compleanno, e stavo per diventare Aquila Svolazzante. E per smettere di essere qualche altra persona.” (da “Grimus” – di Salman Rushdie)

Salman Rushdie è nato a Bombay nel 1947 e si è trasferito a Londra quando aveva appena quattordici anni. Per anni, dopo la pubblicazione de “I versi satanici”, opera mirabile di fantasia, filosofia e religione, l’autore è stato un “fuggitivo” nel vero senso della parola; e se oggi ha ancora la testa attaccata al corpo, può ben dirsi fortunato perché in suo favore si sono mobilitati alcuni fra i più eminenti intellettuali. Per la cronaca, Bono Vox, si è adoperato non poco per aiutare Rushdie; il testo della bellissima canzone “The Ground Beneath Her Feet”, colonna sonora del film “The Million Dollar Hotel” di Wim Wenders, è stata scritta da Salman Rushdie. Un regalo d’amicizia al leader degli U2?
Salman Rushdie, autore di grandissimi romanzi ricchi di fantasia e genuina spregiudicatezza investigativa intorno al panorama uomo, è forse il più grande scrittore contemporaneo vivente, un moderno Shakespeare che ha regalato alla nostra cultura romanzi importanti come “I figli della mezzanotte”, “La vergogna”, “I versi satanici”, “Harun e il mar delle storie”, “L’ultimo sospiro del Moro”, “Est Ovest”, “La terra sotto i suoi piedi”, “Il sorriso del giaguaro”, “Patrie immaginarie”, “Fury”.
Rushdie ci dice che l’uomo è vittima delle furie che si agitano nell’anima, e che l’anima è costretta a seguire la loro volontà (o quella degli dèi, se si preferisce) per tentare di scoprire l’identità che appartiene all’uomo. I personaggi di Rushdie si interrogano come Amleto. Non credo sia errore definire Salman Rushdie moderno Shakespeare. La fantasia di Rushdie è arte e virtuosismo allo stesso tempo, fantasia e dissacrazione dei common places: essere o non essere? I personaggi di Rushdie non possono fare a meno di essere amletici nelle loro scelte, nei loro comportamenti, e il mondo che gli ruota attorno è amletico pure esso. In “Fury”, l’autore disegna la lotta per la sopravvivenza in un mondo scevro di valori, ma anche l’uomo inteso come oggetto soggetto a una società solo virtualmente civile: la religione diventa filosofia e viceversa e poi si fa passare per necessaria politica, in definitiva una impossibile ricerca di una identità reale in un mondo di simulacri (bambole). Le furie agitano l’animo umano e tutti ne sono vittime (in)consapevoli.
Volenti o nolenti, è dovere intellettuale riconoscere a Salman Rushdie di essere “eclettico” quanto Shakespeare, ma anche, moresco, lisergico, filosofico e ambiguo in una declinazione tutta intellettuale. A guardarlo bene in faccia, be’, non lo si può dire uomo affascinante o confortante: la genialità è in quel suo volto severo, quasi ebreo, dal naso aquilino, poi gli occhialini rotondi e la barba grigia completano la sua immagine. Ha sicuramente un debito di riconoscenza non indifferente nei confronti di tanti intellettuali e uomini di spettacolo; ciò non toglie che ogni sua storia ci scaraventa in un universo bastardo, tragicamente remoto e reale, magicamente reale e allo stesso tempo irreale. Dopo “I versi satanici”, Rushdie ha avuto non pochi guai, e usando le sue stesse parole parodiate si potrebbe dire che si attirò le “furie” addosso, e queste hanno tenuto duro veramente, ma il capo dal busto non sono riuscite a spiccarglielo. Forse qualcuno ricorda “The Ground Beneath Her Feet”, la colonna sonora a “The Million Dollar Hotel” di Wim Wenders: bene, il testo della canzone, l’ha scritto quel geniaccio di Rushdie, rivelandosi anche ottimo paroliere o poeta che dir si voglia.

Scrive lo stesso Salman Rushdie a proposito di Grimus: “mi era stato rifiutato un romanzo, ne avevo abbandonati altri due e pubblicato uno, intitolato Grimus, che fu (a voler essere generosi) un vero fiasco.” Accade a molti che un romanzo sia un fiasco, soprattutto quando si è agli esordi, poi, stranamente, per le leggi del mercato editoriale ma anche per quelle della fama, se si riesce a diventar famosi, quello che era un fiasco diventa un capolavoro, o nel migliore dei casi un romanzo da riscoprire che era stato sottovalutato. Purtroppo, il più delle volte, rilanciare sul mercato il primo lavoro di uno scrittore coincide con un quasi suicidio operato e concertato (forse inconsapevolmente) dall’autore. Per nostra fortuna, Grimus non è una bieca operazione commerciale o di rilancio dell’autore più maledetto e dandy di questi ultimi decenni: da questo romanzo, Signori, aspettatevi un Rushdie furioso, ottimamente in forma, capace di tradurvi all’interno di mondi paralleli, ma anche in mille vortici di incastri filosofici che si risolvono non tramite risposte, bensì tramite altri quesiti sempre insoluti. Ci troviamo di fronte ad opera che garantisce tutta la profondità del Michele Mari più “maturo”, quello di “Tutto il ferro della torre Eiffel”;Salman Rushdie non ci offre soluzioni, solo labirinti da scoprire nel vano tentativo di trovare una uscita. Ma anche quando fossimo fuori dal Dedalo, questo si ricompone e smonta tutte le nostre certezze.

Rushdie gioca i miti e le leggende di diverse culture, rielaborando, con assoluta originalità profondamente dickiana, alcuni elementi tipici della science-fiction. Grimus è composito da universi che cadono a pezzi in declinazione dickiana, ma anche dal sogno mitizzato dell’immortalità in chiave umoristica, il cui sapore ci ricorda “I figli di Matusalemme” di Robert A. Heinlein. E il gioco filosofico che è Grimus si complica ulteriormente quando Rushdie inserisce visioni lisergiche à la Aldous Huxley per poi deformarle in un tributo tribale, che ci traduce nella crudeltà antropologica senza speranza d’un regno che pare appartenere a “Il signore delle mosche” di William GoldingGrimus, lo si potrebbe definire un “fantasy futuristico”, ma sarebbe ingiusto, perché il gioco che opera l’autore è di ben altro spessore: sfrutta sì alcuni stereotipi della letteratura di “genere”, ma li trascende in originalità shakespeariana. Il protagonista di questo romanzo è un giovane indiano appartenente alla fittizia tribù degli Axona: ha una sorella più grande che lo svergina e lo inizia all’amore, ma è misteriosa, non a caso il suo nome è Cane da Penna. Un giorno qualsiasi, la sorella di Aquila Svolazzante incontra un tipo strano che le fa dono di due fiale: una di esse concede il dono dell’immortalità. Aquila Svolazzante si decide, dopo non poche scaramucce con la sorella, a ingollare la fiala dell’immortalità, ma presto la vita eterna comincia a diventargli motivo di disgusto. Per settecento anni naviga, si perde tra le genti del mondo, cerca qualcosa da imparare, fa sue molte conoscenze, ma la conoscenza non è maturità, e Aquila Svolazzante lo capisce nel momento in cui il mondo perde ogni significato ai suoi occhi. L’unica maniera per trovare una giustificazione alla sua vita troppo lunga è di recarsi presso la montagnosa Calf Island, dove, forse, potrà tornare ad essere un uomo mortale. Peccato che ad ostacolarlo ci sia Grimus, una entità intelligente, aliena, astratta, che farà penare non poco Aquila Svolazzante. Ma chi è in realtà Grimus? Uno spirito, o piuttosto un’idea? Forse un gioco partorito dalla mente, ma di chi o di che cosa? Non si sa, ma certo è che Grimus comanda il destino di tutti.
Grimus è opera che parla di ibridazione, sradicamento, esilio, in pratica dell’uomo e del Centro dell’Universo, che si presume debba esistere da qualche parte ma non si è certi, non si è certi di niente nell’Universo-puzzle senza Centro che Salman Rushdie disegna con dissacratoria intelligenza.


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