Ci pensava da parecchio. Tant'è che un paio di accenni li aveva anche buttati fuori, qua e là. La spinta finale gliela ha data però questa discussione su Dieci minuti di intervallo, grazie a un accenno della Prof. Così la 'povna approfitta della connessione dello zio Matto e, tra un libro, un bagno in piscina e una chiacchiera guardando la campagna, apre il computer e decide di riassumere in pochi punti facili l'essenziale (per lei) su uno degli ultimi casi della letteratura mondiale.
School-Story o Fantasy? “Non è il mio genere”: è una delle risposte che più si sentono quando HP viene introdotto nelle conversazioni. E' un sospiro che tradisce la nazione di appartenenza di chi legge, perché dove il maghetto è nato (i.e. in Inghilterra) discutere di un dato del genere (la 'povna lo ha visto di persona a un convegno) fa alzare all'interlocutore British elegantemente il sopracciglio, mentre lo vedi che si trattiene a stento sotto i baffi per evitare di ridacchiare. La serie di HP, per la verità, gioca su più tavoli, tra i quali campeggiano la School-Story, il Fantasy e il Coming-of-Age-Novel (volgarmente detto, anche se non è proprio la stessa cosa, romanzo di formazione). Una serie di elementi (molto in breve: la presenza unificante della scuola, le avventure in trio, l'ironia pervasiva su una serie di episodi alti, un epilogo annunciato dall'inizio, il destino dell'eroe e l'anticlimax della fine) confermano però un'appartenza. Con un gioco di parole un po' fighetto, la 'povna ama dire che HP non è un fantasy ma una School-Story di un ragazzo che ama leggere i fantasy. Ma, alla fine, che Hogwarts assomigli meno a Rivendell e più a Plumfield non le sembra una cosa di cui si possa dubitare.
Grandi modelli e sottili citazioni Solo a elencarli tutti, sarebbero moltissimi. La 'povna si ferma a ricordare, per quanto riguarda la School-Story, tutta quella tradizione che va dai Tom Brown's School Days di Hughes a Kipling (Stalky) passando per Vachell e per Blyton e attinge le sue radici profonde già in The Governess o in Miss Leicester's School di Mary Lamb. Per il fantasy non ci sarebbe (quasi) bisogno di ricordare The Lord of the Rings di Tolkien (esplicitamente parodiato in uno degli ultimi capitoli dei Deathly Hallows), ovviamente Lewis e Narnia e His Dark Materials di Pullman. Ma, accanto ai fondamentali, alla 'povna piacerebbe non sottovalutare, per esempio, l'importanza di It del grande King. Infine, non sarebbe male ricordarsi di Pamela Lyndon Travers e della sua serie di Mary Poppins, che ha fornito (su una linea seguita per esempio dalla Brand in Nurse Matilda) alla Rowling una ricetta abbastanza evidente dei modi con cui affrontare il make-believe.
Un protagonista, molte trame (ovvero: di Harry Potter e di Snape). Su questo, pena il rischio di uno spoiler, la 'povna si limita a un accenno. Per ricordare che non solo la trama, e così il genere parziale, cambia a seconda del libro e della formazione del protagonista (così come quella - il make-believe, appunto, insegna - del lettore), ma che la 'regole di lettura' propongono anche l'identificazione con un protagonista adulto, che passa dalle parti del personaggio (strutturalmente) inafferabile di Snape.
Traduttori/Traditori (ovvero: come ti rovino uno stile). E' successo in tutti i paesi: le traduzioni di HP mediamente fanno schifo. Ciò non toglie che lo scempio perpetrato in lingua italiana sia stato a tutt'oggi ineguagliato (e probabilmente ineguagliabile), al punto che la stessa Salani ha deciso (con le complicazioni inevitabili) di correre ai ripari. E' vero che (come ha scritto Jonathan Coe a proposito dei suoi ultimi romanzi) man mano che il successo diventava planetario, la Rowling ha cercato di ridurre il numero di riferimenti so-British e idiosincratici, ma il sostrato del romanzo è talmente intriso di giochi di parole, allusioni stilistiche, memorie di storie tradizionali nella formazione inglese e di cultura in genere che, a leggerlo non in originale, comunque si perde molto, e un'ottima traduzione può solo cercare, al suo meglio, di cavarsela, lavorando con sapienza e convinzione.
Non è stato il caso italico, e l'elenco degli sfondoni è lunghissimo. La 'povna ne cita tre, di carattere diverso. Il primo è quello, famoso, di locket in The Order of the Phoenix, che il pregiato team Masini&Co. traduce con “lucchetto” invece che “medaglione” - una svista che getta al lettore un bel po' di fumo negli occhi rispetto a un oggetto essenziale per il dipanarsi della trama. Il secondo e il terzo, simmetrici (e qui ringraziamo il team Astrologo), riguardano le scelte (deliranti) di ritradurre all'italiana i nomi dei protagonisti (un po' come nel ventennio). Tradurli: ma come? Ecco che Dumbledore (nome che rimanda all'antico inglese per “bombo”, una specie di calabrone a righe), così chiamato per il suo continuo affaccendarsi girando per i corridoi di Hogwarts, come un insetto grande, diventa “Silente”, con quella che la Rowling - con il solito sopracciglio elegantemente alzato – ha definito (ma dai!) una “totale contraddizione”. La stessa sorte però non ha subito il nome di origine del cattivo Voldemort: Tom Riddle (cioè indovinello, enigma), che è rimasto tal quale, alla faccia di Silente. E, per chi conosce l'inglese abbastanza da comprendere l'indizio: molto bene, arrivederci e grazie. E gli altri pace.
Il Re, è il Re, è il Re. Si potrebbe continuare ancora per molto, molto, molto. La 'povna lo ha fatto in altre sedi in maniera più documentata e più ampia, ma non se la sente di abusare di una già fortissima riserva di pazienza, e quasi chiude. Però le resta una cosa da aggiungere.
“Sono scettico di fronte all'universalità del fenomeno”; “Non sa scrivere”; “Non è originale”; “E' troppo facile”; “E' paraletteratura”. Valgono per la ricezione della Rowling, certo, ma sono parole che hanno caratterizzato, per almeno quindici anni, la (miope, e, la 'povna questa volta lo dice: profondamente ignorante) opinione su Stephen King in Italia. Perché solo da noi (per mancanza di una tradizione forte in questo senso) si è incapaci di leggere in originale, di andare al di là degli steccati di genere, di comprendere la prosa di narrazione. In compenso (è una deriva aristotelica esasperata dall'Umanesimo e dal Rinascimento), è sempre necessario stabilire lo scaffale giusto, darsi al collezionismo, etichettare. Possiamo forse (pensa timidamente la 'povna) definire davvero It solo come o un fantasy, o un horror, o un romanzo di formazione sui generis? Eppure tutti questi elementi sono presenti, e anche parecchio, nella tessitura della trama. Non è un caso, chissà, se allora l'incoronazione alla Rowling arriva proprio dal Re in persona, in una intervista poco nota e splendida.
Regina della letteratura giovanile, della School-Story, del romanzo di formazione, del fantasy e di ancora molto altro, perfettamente amalgamato nell'originalità di una ricetta. Regina, soprattutto, di quella dote che hanno solo i grandi. E che si chiama make-believe.
“It's good make-believe I'm talking about. Known in more formal circles as the Ministry of Magic. J.K. Rowling has set the standard: It's a high one, and God bless her for it”. (Stephen King)