fino al 9 dicembre presso la Galleria Cavour di Padova
di Paola Pluchino
Focus on
Guido Bartorelli, docente di Storia dell’arte contemporanea presso l’ateneo di Padova, si fa conoscere grazie alla pubblicazione del volume monografico Numeri innamorati. Sintesi e dinamiche del Secondo Futurismo (Torino, 2001), al quale seguono Fernand Léger cubista 1909-1914 (Padova, 2009) e I miei eroi. Note su un decennio di arte da Mtv a YouTube 1999-2009 (Padova, 2010). Già nel 1999 cura, assieme a Fabriano Fabbri, l’originale progetto espositivo ArtBeat. Arte Narrativa Videoclip (Bologna-Milano-Roma, 1999-2000), con artisti quali Botto & Bruno, Loris Cecchini, Ottonella Mocellin, Giovanna Ricotta, Antonio Riello affiancati a scrittori quali Niccolò Ammaniti, Mauro Covacich, Giulio Mozzi, Aldo Nove, Tiziano Scarpa e ai più belli videoclip musicali dell’epoca. Di dieci anni dopo è Art//Tube. L’arte alla prova della creatività amatoriale (Padova, 2010), che vede gli artisti Botto & Bruno, Stefano Cagol, Nicola Gobbetto, Kensuke Koike, ZimmerFrei affiancati questa volta alla creatività amatoriale del web.
Vuole raccontare la sua carriera e le indagini che sta seguendo in questo periodo?
Devo riconoscere che ho avuto la fortuna di studiare a Bologna in un periodo di grandi stimoli culturali. Maestri come Renato Barilli e Alessandra Borgogelli, così come un compagno come Fabriano Fabbri hanno favorito un’attitudine di ricerca volta a considerare come fondante il radicamento che l’arte ha nel suo contesto. Negli anni Novanta, ad esempio, buona parte dell’arte è segnata dal rapporto con il mondo delle espressioni mediatiche più avanzate, una delle quali è stata senz’altro il videoclip musicale, straordinario territorio di sperimentazione audiovisiva, capace di esprimere sia un’autentica ricerca, sia di farsi apprezzare da intere generazioni. L’idea, molto diffusa, dell’“artista come star” nasce proprio dal desiderio di emulazione delle star musicali. Oggi il rapporto si è naturalmente spostato verso l’ambito delle espressioni online prodotte dagli stessi utenti, che non si limitano più, come il pubblico televisivo, ad “assistere allo spettacolo”, ma vi partecipano con il proprio contributo attivo. Quale giovane passa ancora davanti alla tv la quantità di tempo che vi si dedicava vent’anni fa? La tv, con tutti i suoi programmi nostalgia, resta lo svago prediletto da chi ha dai trenta/quarant’anni in su. Gli altri sono al computer. La mia indagine attuale sta nel capire in che termini chi entra oggi da protagonista nel mondo dell’arte porti con sé un’estetica del tutto diversa. Un’estetica basata sulla bassa definizione, mentre prima prevaleva la definizione patinata.Com’è nata l’idea di Augmented Place?
Augmented Place c’entra con tutto questo in quanto riconosce la presenza fortissima di un nuovo concettuale che può fare affidamento sulle tecnologie digitali. La de-materializzazione concettuale della fine degli anni Sessanta è stata un grande obiettivo, ma di fatto allora irrealizzato. Quale mezzo dell’epoca poteva consentire davvero la circolazione dei concetti svincolati dal gravame della materia? Forse il video o la parola scritta, ma in definitiva nessuno è stato davvero soddisfacente, tanto che più di qualcuno si è spinto a vagheggiare l’ausilio della “telepatia”. Va da sé che questo stato di cose ha reso l’arte quanto mai intellettualistica, terribilmente ostica agli occhi del pubblico. Oggi, viceversa, si potrebbe dire che la telepatia ha finalmente trovato una strumentazione alla portata di tutti: il telefono cellulare e il wi-fi. Di qui il carattere nuovo del concettuale odierno, che non ha più niente di élitario, ma è una vasta forma di comunicazione popolare. È successa una sorta di fusione tra concettuale e pop, un tempo antagonisti.
Augmented Place riprende alcuni esperimenti del concettuale storico, che consistevano nella diffusione più o meno telepatica di opere del tutto immateriali. L’idea portante è di trasmettere in piazza Cavour, a Padova, sei opere immateriali da ricevere tramite wi-fi. Poi il visitatore incuriosito può approfondire la conoscenza con l’arte contemporanea scendendo nella galleria civica sottostante la piazza.
Alterazioni Video, Fausto Falchi, Gregory Fong, IOCOSE, Antonio Riello e Cosimo Terlizzi sono gli artisti presentati, vuole parlarci di loro?
Gli artisti sono stati scelti dal comitato curatoriale, cui fanno parte, oltre a me, Elisa De Marchi, Fabrizio Montini, Giada Pellicari, Elena Tonelli e Stefano Volpato. Ognuno di noi ha fatto la sua proposta, che è stata attentamente discussa da tutto il gruppo. Ogni artista invitato ha una sua peculiare vocazione nel lavorare con l’immaterialità e la relazione, indispensabile nel proporre le opere ai passanti di una piazza. Riello è stato tra i primi a intuire che Internet è il nuovo spazio pubblico. La sua opera in galleria è un videogioco sparatutto dai contenuti estremamente problematici, posto online nel 1997, un tempo davvero pionieristico se si pensa ai ritmi dell’evoluzione di Internet. Fausto Falchi e Gregory Fong hanno dimostrato che l’immaterialità può avere effetti realissimi, perfino pericolosi, tanto da poter divenire illegale. Ne è conseguito che le loro opere sono state vietate. Nel caso di Falchi si sarebbe dovuta creare una zona molto limitata e circoscritta di piazza Cavour in cui sarebbe risultato assente il campo dei cellulari e di qualsiasi altro dispositivo wi-fi. Una sorta di isola per eremiti dell’epoca digitale. Fong, da parte sua, aveva proposto di sostituire parte dei neon della galleria con neon abbronzanti. La luce come opera, silenziosamente capace di lasciare il segno sulla pelle dei visitatori. I progetti di Falchi e di Fong presentavano rischi insormontabili e quindi ci siamo fermati. È molto interessante, però, scoprire come entrambi hanno risolto la situazione volgendola, mi sembra, a proprio vantaggio. I contenuti problematici, cui accennavo a riguardo dell’opera di Riello, sono gli stessi del lavoro di Alterazioni Video: sia Riello sia Alterazioni Video prendono a soggetto il dramma dell’immigrazione clandestina, dandocene un’immagine davvero sorprendente, nell’uno e nell’altro caso ben al di là di qualsiasi opinione ce ne siamo fatti finora. IOCOSE utilizzano Internet per lanciare un’offerta pubblica di lavoro. In cambio di pochi soldi una moltitudine di persone, per lo più abitanti dei paesi del Terzo Mondo, ha accettato di contribuire a una produzione artistica. Un modo di delegare parte dell’autorialità che fa molto riflettere, sia per i risvolti sociali, sia per quelli relativi al concetto di arte. Infine Cosimo Terlizzi propone un toccante omaggio al vuoto, un concetto che ha a che vedere sia con la religione, sia con un’aspirazione di elevazione non necessariamente religiosa. Inutile dire che in una mostra come Augmented Place il vuoto consuona con il brusio immateriale-digitale che ci avvolge tutti. Forse Internet è la nostra laicissima trascendenza.
Quali sono le potenzialità dei nuovi mezzi di comunicazione e che ruolo giocano nel modificare l’arte e la sua fruizione?
A tal proposito credo di dovere limitarmi a porre a mia volta delle domande. Che conseguenze ha sulla nostra sensibilità l’essere esposti quotidianamente a mezzi che, senza quasi che ce ne accorgiamo, ci impongono una propria estetica, molto diversa da quella che abbiamo conosciuto finora? È esplosa tra le fruizioni più diffuse un’estetica da prodotto amatoriale che è un enorme dato di fatto inedito. In genere il dilettante non è interessato a rifinire il suo prodotto sigillandolo nell’alta definizione. Il prodotto amatoriale resta aperto, sgranato, traballante, e pertanto invoglia alla partecipazione. Attenzione, però, al fatto che con definizione non intendo riferirmi semplicemente al numero di pixel presenti in un’immagine. La definizione riguarda le pratiche complessive con cui si realizza un prodotto. Un dilettante è a bassa definizione anche se usa strumenti in HD. Ebbene, detto questo, bisogna aggiungere che l’estetica amatoriale a bassa definizione non può affatto essere intesa come un semplice difetto di qualità. Essa apporta una nuova entusiasmante qualità: la partecipazione. L’estetica amatoriale è un’estetica della partecipazione.
Ad accompagnare la mostra tre conferenze curate insieme a lei da Elisa De Marchi, Fabrizio Montini, Giada Pellicari, Elena Tonelli e Stefano Volpato, vuole presentarci questi relatori?
Sono quattro promettenti professionisti del mondo dell’arte che hanno da poco concluso gli studi. Essi hanno svolto un ruolo di grande responsabilità in Augmented Place, cui hanno risposto alla grande. Sono convinto, per esperienza, che non ci siano forze migliori per la ricerca di quelle di un giovane di talento ben motivato. Nel nostro caso si tratta di personalità molto diverse tra loro, e questa è un’ulteriore risorsa. Tutti hanno svolto gli studi triennali all’Università Padova per poi frequentare la magistrale, come è auspicabile, là dove potevano sviluppare al meglio le proprie rispettive inclinazioni: chi a Bologna, chi a Venezia, chi restando a Padova.
Che ruolo svolge l’Università nella promozione dei giovani artisti e curatori?
Oltre a critico e storico dell’arte mi piace considerarmi un insegnate. Il rapporto con gli studenti è una grande opportunità di aggiornamento, una risorsa inestimabile per chi, come me, si occupa di contemporaneo. Tramite stage, laboratori e collaborazioni dirette l’Università fa il possibile per instradare i ragazzi verso il mondo del lavoro. Vi assicuro che è così, almeno per la situazione che conosco direttamente. La meritocrazia è un giusto criterio, anzi l’unico giusto criterio. Ma è anche molto crudele. Ci sarebbe molto da discutere, ma mi pare di poter così sintetizzare quel che aspetta i giovani che si vogliono occupare di arte contemporanea nei tempi che corrono: molto da lavorare, poco da guadagnare, richiesta assoluta di competenza e preparazione.