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Che la Lega ci perdoni. Però, però. Basta oltrepassare i nostri confini perché, tutto sommato, un/una italiano/a trovi dei motivi per non sentirsi poi così tanto un reietto dell’Occidente come invece gli/le succede quando è a casa sua. Chiedete a qualunque straniero amante di moda, design e food cosa pensi della nostra penisola e l’effetto sarà ricostituente, tonificante, energetico. L’Italian Way of Life, secondo il filosofo Giovanni Lanzone esprime «uno stile di pensiero, una via iniziatica che va molto al di là del Made in Italy» e riscuote comunque sempre grande successo di pubblico e di critica (a confermare definitivamente un altro luogo comune legato all’italico popolo: alla fin fine, ci va sempre bene).
E se si cerca di capire perché il posto dove viviamo a noi sembra un problema mentre a loro sembra una (bella) soluzione, il concetto ultimo, depurato dai tanti «Ohhh...», «Ahhhh...» e «So beautiful!» sta nella nostra capacità di sapere e di saperci fare. Vale a dire: da parte altrui persiste l’inveterata fiducia nella nostra capacità artigianale. Quella connessa ai mestieri manuali, ma anche quella legata a una sfera squisitamente sentimentale. Vediamo di spiegarci. Ci viene riconosciuta, e noi li guardiamo increduli, una competenza legata alla manualità “alta”: alta moda (anche quell’alta moda pronta che è il prêt-à-porter), alta cucina, alto design, alta qualità di materiali. Ma veniamo ammirati anche per l’attitudine a cavarcela da soli nelle relazioni umane, magari coinvolgendo un amico e non uno strizzacervelli o chiedendo consigli in giro senza compulsare manuali di self-help.
È la conseguenza della lunga esposizione al riflettore degli stereotipi, che illuminano un’Italia come luogo dove ci si veste, si mangia e si fa l’amore bene e dove persino i mafiosi (da Il Padrino in poi) li si immagina eleganti, con un cannolo in una mano e una Beretta nell’altra? Be’: se anche così fosse, allora evviva gli stereotipi. Continuiamo a essere percepiti come un popolo di spaventosi individualisti che coltiva da sempre la cultura del “su misura” anche quando si tratta di risolverci i casini personali. E certe cose che a noi appaiono difetti (e forse lo sono) per chi ci guarda dall’ester(n)o rappresentano dei pregi (e forse lo sono). Utile, in tempi di crisi. E utilissimo se si parla di moda. È sotto il segno delle tre “esse” «Sicilianità. Sartorialità. Sensualità», l’ultima collezione di Dolce & Gabbana.
Secondo la recensione di WWD, (la Bibbia di chi la moda la fa più che di chi la compra), «it was absolutely splendido» (in italiano nel testo). E non sarà certo un caso se sulla passerella sono calati dei video dove Stefano Gabbana eDomenico Dolce lavorano con le sarte per imbastire, allungare, sagomare. Un inno alla sartorialità che si riverbera nelle linee tailored di Giorgio Armani, Gucci, Ferragamo, Prada, Canali, Larusmiani... Un trionfo della mano come strumento perfetto per dare sostanza ai sogni. Vedi il grandioso successo della mostra alla Triennale di Milano (con un pubblico degno di una retrospettiva di Van Gogh) per i cent’anni di Zegna, brand che punta da sempre sulle lavorazioni d’atelier: per l’occasione ha dato alle stamper un prestigioso volume, Ermenegildo Zegna(Skira).
CHE LUSSO, ESSERE SE STESSI! «Gli abiti assistono, come in attesa di essere invitati a ballare. Noi allunghiamo una mano e chiediamo: “posso?!”. E se quelle 550 mani hanno fatto bene il loro lavoro nel tessere prima il materiale e poi a cucire, tagliare e stirare, l’abito acconsente» (D. T. Max, la mano. Dal libro Ermenegildo Zegna)
Francesco Morace, nel libro dallo stentoreo titolo Verità e bellezza - Una scommessa per il futuro dell’Italia (Nomos Edizioni) scrive che il nostro paese «può godere di un paradosso, di una sorta di vantaggio del ritardo: siamo senza saperlo e senza volerlo in sintonia con molti cambiamenti in atto nella società globale». Spegnete quei sorrisi scettici: secondo Morace, la tipica convivialità italiana può essere giudicata una forma di sharing ante litteram, il consueto campanilismo anticipa i «progetti trans-locale», la cultura atavica del familismo si può interpretare come «laboratorio intergenerazionale» e l’attitudine alla bella vita assume la dimensione di un «approdo estetico ed estatico».
Addirittura estatico? Certo, se si uniscono varie passioni italiane che di più non si può come la Scala e la moda. Una partnership che si tradurrà, durante la settegiorni della moda milanese con la produzione da parte di Tod’s di un video diretto dal regista-artista Matthias Zentner. Il cortometraggio avrà come protagonisti gli artisti del corpo di ballo del teatro che interpreteranno, attraverso la danza, i passaggi che portano alla creazione del “fatto a mano” della maison.Diego Della Valle, patron della griffe, tiene a sottolineare che con questa operazione culturale intende esaltare «un’eleganza inedita e aristocraticamente oltre le mode, dalle forme essenziali e mai appariscenti». Cioè quella perfettamente incarnata dalle icone Tod’s: la scarpa Ballerina, il mocassino Gommino e la borsa D Bag. E continua: «Non prestiamo solo attenzione alla qualità della lavorazione e dei materiali, ma anche alle esigenze dei nostri clienti. Non si definisce “di lusso” una cosa solo perché è costosa, ma perché è prodotta da un’azienda che fa tutto in modo coerente. Proprio per questo il Made in Italy è un valore che va preservato e quindi l’artigianalità è da sempre al centro della nostra filosofia di lavoro».
Sempre nell’ottica del “fatto a mano”, però sottoposto a un upgrade ipercontemporaneo, durante il London Design Festival (dal 18 al 26 settembre, in concomitanza con la Fashion Week di Londra), Fendi presenta il progetto In Every Dream Home in collaborazione con Fumi Gallery, nata nel 2008 per sostenere i talenti emergenti nell’arte e nel design. Quattro giovani designer - Paul Kelley, Studio Glithero, Freddie Yauner e Tina Roeder - esporranno dei lavori che prevedono l’utilizzo di materiali Fendi o l’impiego di tecniche artigianali tipiche della maison romana (e nel loft Fumi in Hoxton Square sarà inoltre ospitata un’installazione del giovane designer Rowan Mersh, autore di muri “organici” decorati con pelli e pellicce). Sempre Fendi curerà la promozione di The Whispered Directory of Craftsmanship. Una guida che è un omaggio del brand alla grandezza del nostro saper fare nei campi più disparati: dai gelati Grom ai gioielli di Fulco di Verdura (oltre alle pellicce Fendi, ovvio). «Per me, artigianalità significa creare pezzi unici con una forte personalità, lontani dalla produzione di massa», dice Silvia Venturini Fendi. «Un oggetto fatto a mano è un oggetto che esprime qualcosa di personale, parla della persona a cui appartiene. Il lusso e l’unicità consistono nel potere apprezzare il processo manuale che sta dietro al processo creativo: penso per esempio alle nostre borse della linea Selleria, tutte numerate e personalizzabili».
E Frida Giannini, direttore artistico di Gucci, rilancia la campagna pubblicitariaForever Now realizzata con foto dell’archivio storico del marchio. E afferma: «La mia visione implica una sorta di matrimonio stilistico tra il passato, il presente e il futuro. Il mio impegno è profondamente connesso alla storia di Gucci, lunga 90 anni e alla sua eccellenza nel settore del lusso, ma credo che le mie collezioni uniscano i valori della tradizione con una prospettiva molto moderna». Così la nuova - per così dire - immagine di advertising è un ritratto di artigiani nella storica sede di Via delle Caldaie a Firenze, firmata Foto Locchi e scattata nel 1953. Ha ragione: oggi, come rimedio anticrisi economica (leggi: lo shopping come forma di investimento) e come rimedio anticrisi esistenziale (leggi: ribellarsi alla globalizzazione e rivalutare durevolezza, affidabilità e originalità), il ritorno all’artigianato si carica di un valore contemporaneo. Ovvero: l’eversione gentile di un gesto e/o di un oggetto che racconti una sua storia. E ci aiuti a raccontare la nostra. (fonte: marieclaire)
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