Esser su una sedia a rotelle a volte, fortunatamente non per tutti, non è una cosa semplice né per chi lo è.. né per chi ti vive vicino. Non accettare per tanto e tanto tempo quel che è accaduto a te stesso pensando ogni secondo “Ma perché a me?! Perché non è stato fatto quel che andava fatto?!” e non trovare risposta, giorno e notte, è una triste compagna da cui non ti puoi separare.
Arrabbiarti ogni secondo con chi ti vuole bene perché chi poteva non ha fatto i passi che si sarebbero potuti fare per avere una vita più facile e non capire che quando si è genitore davanti a sé c’è solo la salute del proprio figlio, e non si vede nient’altro, è una catena con lucchetto che ti lega mani e piedi da cui non riesci a liberarti. E nessuno ti da la chiave per farlo.
Non capire che chi ha commesso l’errore non lo ha dichiarato, pertanto i miei genitori non sapevano cosa fosse successo durante quella maledetta mattina del 5 dicembre 1978, e arrabbiarti con la vita, con te stesso, con tutti quelli che mi stavano vicino, per anni e anni, è quasi come annegare nella vasca da bagno riempita con le tue stesse mani. Alzarsi ogni mattina e vedere allo specchio una persona che non ti piace e non saper cosa fare per fartela piacere, esser spesso soggetto di 1000 sguardi perché la realtà dove vivi è un po’ provincialotta, esser a volte incapace di apprezzare le innumerevoli piccole o grandi cose che mamma e papà facevano per me perché sei concentrato solo sulla guerra interiore ti logora giorno dopo giorno e che non puoi vincere, perché vincerla significa autoeliminarti, è un fardello pesate con cui convivere.
E portarsi dietro, e dentro, tutto questo fardello per 33 anni senza riuscire a esternare quello che hai dentro, non ti fa vivere bene. Tutto quello che son stato capace di fare negli anni è reagire con violenza. Contro chi avevo vicino e contro me stesso.
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Ed arrivare a 33 anni e rendersi conto di non aver lasciato nulla di buono a chi ha speso tanto tempo e denaro per te ha fermato la mia corsa verso l’autodistruzione. Non esser affermato nel lavoro, non avere una famiglia propria che ti aspetta a casa e magari un figlio da far viziare ai tuoi genitori, mi ha fatto capire che forse, se avevo un grande debito nella vita, non l’avevo nei confronti di una qualsiasi banca che mi ha concesso il mutuo, ma nei loro confronti. E forse anche nei miei. Ed è in clima tutt’altro che sereno, spinto da un forte senso di colpa nei confronti di chi ha sopportato per anni i miei sopprusi e cambiamenti di umore, che ho deciso di cambiare.
Abbandonare una battaglia persa in partenza e cercare di trarre quel che di migliore posso trarre dalla mia difficile vita, è forse il miglior ringraziamento che posso lasciare alla mia famglia e ai miei amici.
Già.. gli amici, che negli ultimi anni son stati quella famiglia che ti aspettava a casa quando arrivavi. Quelli che non son andati via al primo soffiare del monsone, ma che ti hanno conosciuto, ti hanno creduto, hanno creduto nella tua buona fede (perché quando si ha solo quella.. è quella che si mette sul piatto), quelli che quando ti cede il ginocchio, prima che tu te ne accorga, ti hanno già infilato una mano sotto l’ascella per sostenerti e non farti cadere. Anche se spesso cadere serve.
Ed è verso tutte queste persone, questa grande famiglia allargata, che sento il dovere di dimostrare che forse qualcosa di buono la posso fare anche io. Che navigare per tanto tempo in cattive acque mi ha insegnato a riconoscere quelle buone; e che forse la tempesta sta passando; ed ora non mi resta che finire la mia corsa verso il mio porto. Che ora non mi resta che spiegare le mie vele e far correre quella barca come non ho mai creduto di poter fare. E dimostrare a me stesso che, se anche ho imbevuto la mia vita di acque sporche e detriti, forse la stessa vita ha lavorato su quel sedimento tanto da ottenere, dopo anni, qualcosa di buono.