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Hard Stuff: “Metamorfosi” di un disturbo gastrointestinale

Creato il 16 febbraio 2012 da Postscriptum

Hard Stuff: “Metamorfosi” di un disturbo gastrointestinale

Sono convinto che anche una scorreggia, “spetata” durante quei meravigliosi rockin’ seventies, avrebbe suonato alla grande, detto con solennità hendrixiana! Erano probabilmente le circostanze, lo scenario, a far sì che chiunque – con una chitarra dinanzi la regione inguinale (non più giù, come i metallari, né più su come i jazzari) – riuscisse a tirar fuori qualcosa magari non originalissima, ma che comunque rientrava perfettamente in quell’ambito ed era godibilissima alle orecchie di un rockettaro qualsiasi!

Pensate che goduria, accendere una radio nel ’72 e nelle frequenze più note ascoltare Woman is the Nigger of the World – nella speranza che i Beatles prima o poi sarebbero tornati assieme – Misty Mountain Hop, Space Truckin, Soul Survivor, The Low Spark of High-heeled boys, Guess Who del Re di colore, l’ultima versione live di I’m Ready ad opera della band di Mr Muddy Waters!

Oppure, cambiando stazione, tra quelle più piratesche e arrembanti, avreste anche potuto imbattervi negli Hard Stuff. Direttamente mandati da sua maestà Ian Gillan, questi cavalli facevano parte di una purtroppo fallimentare scuderia chiamata Purple Records. I Deeps, che rispetto ai Leds – diciamolo – erano un po’ meno con la puzza sotto il naso, cercavano di operare da talent scout e per questo avevano fondato una etichetta propria con cui promuovevano band secondo loro degne di successo.

Così, dopo aver finito di registrare nell’estate 1971, all’inizio del nuovo anno esce Bulletproof, primo album di questi rinnegati (o rinneganti), provenienti dai più famosi Atomic Rooster (link) e Quatermass (link).

In effetti la copertina faceva schifo, i volti di tre componenti della band denotavano proprio quella scarsa originalità menzionata a proposito dei peti. Addirittura più brutta di quella del loro disco successivo, che pur balzò agli onori della cronaca perché votata da parecchie riviste di settore come la peggior cover album dell’anno.

E forse il primo brano in scaletta, Jay Time (link) – che inizia con un perfetto riff ledzeppeliniano – dopo il primo promettente minuto perde quel fascino d’impatto acquisito. La voce è molto interessante, dovrebbe trattarsi di Harry Shaw dai Curiosity Schoppe (gran bella band), ma vai a capirci qualcosa co’sti tizi sì “sciarrini”! A quanto pare Shaw litigò subito con gli altri, tanto da esser escluso persino dai credits…e  dalla foto di copertina (vd. angolo in basso a destra della cover. Gli è andata bene, in questo).

In effetti, come accennavo in principio, anche gli altri componenti erano dei transfughi in esodo da altre formazioni:

John Du Cann, chitarrista di una meravigliosa prog-blues rock band abbastanza nota in quel periodo, gli Atomic Rooster (cui devono molto i Black Sabbath e persino i New Trolls, cercare per credere). Questi, abbastanza scontento, a quanto pare, della inflessione troppo soul-blues che voleva dare il tastierista e fondatore Vincent Crane, convince il batterista Paul Hammond e se lo porta appresso per formare un nuovo gruppo. Al basso chiamano John “Gus” Gustafson, vecchio amico di Ian Gillan e Roger Glover, nonché membro di altra gloriosa band di hard-progressive, i Quatermass (vivamente consigliati).

Ne viene fuori una mistura di hard rock estremamente aggressivo, una sintesi di tutte le loro esperienze che introduce il mondo del rock a certe sonorità più heavy. Forse gli ascoltatori non se ne accorgono subito, ma i musicisti di sicuro sì. Ed è impossibile non notare la grossa differenza tra il Vol. 4 dei Black Sabbath (del ’72) ed il successivo bellissimo, raffinato, Sabbath Bloody Sabbath (del ’73). Ovviamente non sarà stato tutto grazie agli Hard Stuff, ma Iommi l’occhio glielo ha buttato di certo, ve lo assicuro. I semi sono stati sparsi nel terreno…

Ecce viri fautrix superas delapsa per auras Pallas adest motaeque iubet subponere terrae vipereos dentes, populi incrementa futuri.

Basta ascoltare il secondo “dente” di BulletproofSinister Minister (link) – così simile a certe cose che i Sabbath faranno da lì in poi, con una buona dose di deeppurplismo e di heavy blues. Altro riferimento facile facile è quello agli U.F.O. (link) che, tra il finire dei “settanta” e i primi “ottanta”, riprenderanno il genere.

La voce è graffiante, acuta e modulata; Du Cann Funambolico, ed il pezzo si chiude con una distorsione da studio applicata sul già distorto suono dell’ampli.

No Witch At All (link), riprende quei temi dark da primi Atomic Rooster – echeggiando persino qualcosa dei Jethro Tull -  è forse tra i più bei brani di questo album. Adesso la scorreggia è tonante e possente, originale quel tanto da garantire sulla parola un futuro luminoso nella scalata all’Olimpo del Rock. Tutto funziona a perfezione, grande Hard Rock! Un vero classico, con riffs da brivido.

Prova lampante del fatto che questa band sia stata sfortunata e avrebbe senz’altro meritato successi superiori a quelli goduti da soliti raccomandati, la si rinviene in Taken Alive (link), perfetto antecedente per l’AC/DC sound di qualche anno dopo.

Su hobo (link) vengono rispolverate le radici americaneggianti del genere di questa band britannica e l’intro sembra quasi alla CCR. Poi il pezzo prosegue per strade ben più anglosassoni. E io mi sto ancora chiedendo: ma dove sono le ballad? No, dico così, perché non le sopporto e questo album va migliorando di canzone in canzone, mano a mano che si ascolta. Diteglielo ai Kiss che sono arrivati troppo tardi…

Mr. Longevity-RIP (link)? Che razza di titolo è? Ai ragazzi piace la babbiata. Inizia con piglio dark-prog ma poi il vocalist porta tutto su di un piano più solare. Videt hic Deus omnia primus, per restare con Ovidio. Il finale in wha-wha illumina la certezza di una grande band che è la sintesi tra le istanze sabbathiane e la cultura musicale dei Deep Purple. Un album che dovrebbe esser posto tra i classici del genere e in tutte le discoteche dei fruitori di categoria.

Gli Hard Stuff vanno in tour insieme a Lord & Co. , ma anche con un’altra sottovalutata band, gli Uriah Heep.

La gente se ne frega altamente. C’è il tempo di pubblicare un altro album Bolex Dementia, più heavy e funky del precedente, forse non altrettanto bello. Non c’è neanche il tempo per recensirlo, bisogna scovarlo tra i polverosi scaffali delle dimenticanze.

La Purple Records non era la Quercia di Dodona, ed i fruscii sono senz’altro stati ingannevoli. Ma ci rassicura il fatto che un pezzetto di quel legno interminabile è stato staccato dal tronco ed è stato inserito tra le travi di sostegno di miriadi di band passate e future. Compito di noi, novelli argonauti, è di saper ben discernere tra gli olezzanti peti (quelli di oggi, come quelli di ieri e senz’altro quelli di domani) per scovare gli odori e i profumi più trascurati e meritevoli.

O buon Dio, Padre superno,

Che mutasti l’acqua in vino,

Fa’ del mio culo un lanterno,

Da illuminare il mio vicino.


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