Xavier Dolan: è nata una stella?
Questo interrogativo, che sicuramente non vi avrà fatto dormire per notti e notti, va posto alla luce di un’opera seconda che si incarica, in linea teorica e anche a confronto con un ottimo esordio, di dare riconferma delle abilità mostrate in precedenza, con l’aggiunta, magari, di qualcosa in più che possa favorire maggiormente l’apprezzamento. È un discorso di aspettative, I Killed My Mother (2009) ha incontrato in chi scrive un convinto sostenitore, vuoi per le qualità proprie del film che ci sono, vuoi perché ritornando a quel discorso, chi l’ha diretto aveva solo vent’anni.
Pensando al fatto che Les amours imaginaires arriva soltanto 365 giorni dopo il primo film di Dolan, la mia stima nei confronti di questo giovanissimo rimane immutata tanto che sui difetti presenti si può chiudere un occhio per poi riaprirlo: Heartbeats scorre, si guarda, e piace.
Le premesse sono queste e da qui non si sfugge, che lo si voglia o meno il menage a trois è la base della storia, ma invece di storcere il naso è a mio parere apprezzabile la voglia che Dolan ci mette nell’esposizione proponendo vie alternative e parecchio personali. Principalmente agisce di scalpello nell’area-scrittura sottraendo alla sceneggiatura momenti solitamente rapiti dalla mdp in una relazione sentimentale e qui felicemente ovviati: elementi cardine come l’incontro, la conoscenza reciproca, l’infatuazione, il tormento e il distacco, pur seguendo il classico schema del genere, ci vengono trasmessi attraverso anche singoli piani piuttosto che con un intreccio di sequenze; solo un esempio in mezzo a molti altri: quando all’inizio Marie e Francis tagliano la verdura, lui alza la testa in direzione di Nicolas, ciò è un lodevole suggerimento per comunicarci l’inizio dell’interesse verso il biondo giovine.
Parliamo dunque di un film più impaginato rispetto a quello che l’ha preceduto, perciò non sfuggirà la geometria della struttura costituita da blocchi che si ripetono:
blocco-intervista (retaggio dell’esordio)
blocco-storia (la narrazione che, come detto, si affida principalmente all’immagine)
blocco-bang bang (la voce di Dalida che diventa simbolo del film)
blocco-letto (luci alienanti con successivo rallenti)
Se ne deduce che l’attenzione verso il comparto estetico è notevole e non può che far piacere.
La mia opinione è che con un soggetto così banale non era facile cavare un qualcosa che non grondasse miele né si ammorbasse di facile sentimentalismo, l’obiettivo di offrire un vestito diverso per vetusti topoi è stato raggiunto, può garbare o meno ma di questo è doveroso prendere atto.
Se sia nata o meno una stella è presto per dirlo, un luccichio, però, sicuramente c’è.