Ennesimo titolo scritto e diretto da Nishimura, ascrivibile come i precedenti (ed i successivi) al controverso filone della Sushi Typhoon, un genere cinematografico postmoderno a base di eccessi splatter che da anni fa impazzire il Giappone.
“Una misteriosa nebbia trasforma chiunque la respiri in una creatura affamata di carne umana. L’epidemia dilaga rapidamente fino a contagiare tutta la parte nord del Giappone, che fortunatamente viene isolata in seguito all’innalzamento di altissime mura fortificate per impedire un’ulteriore diffusione del contagio. La situazione è tuttavia fuori controllo e l’unica speranza diverrà Kika (Yumiko Hara), una fanciulla armata di una sorta di spada-motosega alimentata dal suo cuore artificiale. Kika sarà incaricata dal Governo di recarsi ai confini popolati dai morti viventi per uccidere Rikka (Eihi Shiina), la diabolica Regina degli Zombi e porre quindi fine alla piaga del virus”
La trama è, come sempre, un semplice pretesto per la successione infinita di effetti speciali barocchi e deliberatamente grotteschi: amputazioni, mutazioni disgustose, torture e persino un’esilarante pioggia di teste mozzate. Eppure un dettaglio segna una marginale differenza, rispetto a produzioni monodimensionli come Tokyo Gore Police, The Machine Girl o, giocando al ribasso, Samurai Princess: l’assoluta, sfrontata autoironia. Se in altri film del filone si alternavano affondi di humour nero a (presunti) approfondimenti psicologico/sociali, in Helldriver la definitiva assenza di buon gusto accompagna un assoluto rifiuto di intenti analitici, permettendo al regista anche la civetteria cinefila di citare, in maniera manifesta, titoli celebri della cinematografia revenant come Il giorno dei morti viventi (1985) di Romero e Le notti del terrore (1981) di Andrea Bianchi (nella sequenza del morso ai capezzoli di una ragazza). Questo non garantisce, chiaramente, una sufficienza artistica al lungometraggio, ennesimo amalgama di location impersonali, overacting continuo e musiche inopportune, tra brani country e rock’n'roll, per una durata complessiva di due ore estenuanti. Davvero un peccato per un genere che avrebbe potuto trasformare il proprio spirito anarchico e provocatorio in un inedito approccio filmico, talmente svincolato dal cinema-cinema e da riferimenti e forme narrative predefinite da potersi permettere tutto, in modo non molto dissimile da quello che per esempio fecero, con risultati eccezionali, Andy Warhol e Paul Morrissey con Il mostro è in tavola… barone Frankenstein(1973) e Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!!! (1974). Ma quella è davvero un’altra storia.
YouTube Video