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la cittadina industriale di Moa, pare la più inquinata dell'isola, coperta di polvere rossa per le lavorazioni delle sue mine di nickel e infine Holguin (ci sono nati Batista ed i Castro) ospiti per una notte di Dora e Rafael. Ogni città cubana è naturalmente diversa, ha la sua personalità, qui ci colpiscono i nomi delle strade, non solo Cespedes, Agramonte, Garcia, Maceo, Martì, Cienfuegos, gli eroi delle due guerre d'indipendenza dagli spagnoli e della revolucion del '59, ma russi in abbandonanza, anche Lenin e Dimitrov. Tentiamo un villaggetto di pescatori con la playa de la Herradura,
ma l'uragano Ike ha spazzato via tutto tre anni fa, visita al bellissimo paesino di Puerto Padre,
addormentato su un golfo chiuso
e con lo stesso taglio monumentale e neoclassico di Cienfuegose, la statua di un pensoso Don Chisciotte fa la guardia
e finiamo il we nel primo ghetto per turisti, del nostro viaggio, che funziona come un club vacanze all inclusiv, alla stupenda spiaggia di Punta Covarrubias.
Frotte di canadesi che bevono come spugne i cocktail gratuiti e si rimpinzano al buffet, loro in sole 3 ore e mezza arrivano qui, alla sera musica e spettacolo, ma noi rinpiangiamo quello vero di Baracoa.
Di nuovo on the road attraverso una vegetazione che Gastone sostiene essere simile alle pampas argentine, la terra è bruciata dal sole e dal vento, l'oceano fa sentire in lontananza la sua voce fino a Nuevitas,
altra cittadina industriale sull'omonima baia:
se volevamo l'autenticità e la vera Cuba, siamo accontentate e poi, per chi è tentato, c'è un parrucchiere bravissimo all'aperto;
l'unico albergo del posto ha dieci stanze in demolizione
e la nostra, la 307, con vista però dei cayos los 3 Ballenatos e la sera cena con gli operai del posto, osservate con gran stupore, mai visto due turiste arrivare lì. Da vere esploratrici tentiamo anche Cayo Sabinal selvaggio e meta di fenicotteri rosa, ma alla duecentesima buca il mio pilota desiste. Mi sto appassionando a fare foto, come se relizzassi di avere un occhio in più per osservare il mondo, un occhio più attento e preciso che mette a fuoco i dettagli, coglie la poesia del particolare e quest'isola lo merita, i paesaggi naturali ed umani sono così ricchi e mutevoli. Sulla strada per Cayo Guillermo ci siamo solo noi, prima coltivazioni di canna da zucchero, con un incredibile cielo di nuvole nere e bianche,
poi greggi di pecore, qualche ranchero a cavallo,
infine di nuovo foresta tropicale, palme rigogliose
traboccanti cocchi. I villaggetti sono molto poveri, ma con le case colorate e ordinate, le siepi di piante grasse potate tutt'intorno. La strada all'improvviso risulta come divisa in due, da una parte l'asfalto grigio e bucato, dall'altra chilometri e chilometri di un tappeto giallo che copre il bitume.
é riso non decorticato steso ad asciugare al sole (a Bali erano peperoncini rossi e chiodi di garofano), gli uomini si riparano dal sole sotto le trebbiatrici parcheggiate lungo il percorso e mandano baci al nostro passare.
Da Moron si dipartono circa 40 km che collegano Cayo Coco e Cayo Guillermo alla terraferma, i più famosi dei Jardines del Rey, un arcipelago di circa 2500 isolotti corallini, una collana di perle che adorna la costa nord. Una volta ancora stiamo per entrare in un luogo estremo, una riserva naturale, con la consapevolezza piena di fascino e disorientamento che ne consegue. Fidel in un gran cartello all'ingresso del "pedraplén" (strada-diga) sprona i suoi operai,
ha ragione, deve fare un certo effetto avanzare nell'oceano. Eccoci all'ingresso del paradiso,
spiace solo che non possano entrarci tutti, c'è infatti un San Pietro vestito da questurino che controlla i passaporti e ti chiede 4 CUC. Laguna di mare, acqua color dell'acqua, vegetazione fitta e bassa, aironi fra le mangrovie,
gabbiani
e farfalle che la fanno da padrone. 30 km di bellezza silente per Cayo Coco, gli alberghi non si vedono racchiusi nella vegetazione, poi altro pedraplen per Cayo Guillermo,
tre soli alberghi,
ed alla punta estrema dell'isolotto Playa Pilar,
decantata a giusto titolo come la più bella di Cuba, proprio non potevamo lasciarcela scappare. Decisamente Hemingway non era un cretino e di cose belle se ne intendeva. Con la sua passione per il mare e la pesca d'altura, oltre Key West aveva scoperto questi posti ben prima dell'arrivo del turismo ed ha immortalato questo cayo nel suo romanzo "Isole alla deriva". Una lunga passerella di legno azzurro dal sapore antico che scavalca le dune,
una lunghissima lingua di rena bianca finissima,
alte e basse maree che ogni 6 ore mutano la geografia del luogo, fantasie cromatiche dell'acqua,
la voce dell'oceano sempre diversa, una sottile brezza, qui è permesso commuoversi.
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