di Michele Marsonet. Finalmente i media italiani – al pari di quelli internazionali – hanno compreso l’estrema pericolosità del caos che si è scatenato in Libia dopo l’eliminazione di Gheddafi. Sono cadute le ultime illusioni, legate all’ipotesi che i cosiddetti “moderati” riuscissero a prevalere militarmente sulle milizie jihadiste che spadroneggiano nella nostra ex colonia. E scrivo “militarmente” perché non è davvero il caso, in quel contesto, di menzionare una dimensione puramente politica.
Se le forze che – con beneficio d’inventario – vengono definite “moderate” conservano ancora qualche possibilità di sopravvivere, lo si deve alla crescente preoccupazione egiziana. Vi sono indizi che i militari ora al potere al Cairo possano intervenire per evitare la vittoria definitiva dei fondamentalisti. Rammentando però che Al Sisi e colleghi hanno già enormi problemi interni con la Fratellanza Musulmana, messa al bando ma tuttora in grado di organizzare attentati sanguinosi in varie parti del Paese.
Chi scrive sperava di trovare nel recente libro di Hillary Rodham Clinton “Scelte difficili” (Sperling & Kupfer editore) una spiegazione definitiva e ragionata dei motivi che spinsero la Francia, poi seguita da altre nazioni occidentali, ad attaccare la Libia in modo repentino senza neppure attendere il semaforo verde da parte degli organismi internazionali. Speranza, purtroppo, subito delusa.
L’ex Segretario di Stato traccia, degli avvenimenti suddetti, un quadro piuttosto confuso. Si parte dal fatto – ormai noto – che americani e occidentali in genere possedevano una conoscenza assai vaga della situazione reale sul terreno e del panorama politico libico. Il defunto dittatore aveva a più riprese fatto notare che nel suo Paese erano da tempo all’opera forti milizie fondamentaliste, a quel tempo prevalentemente legate a al Qaeda. Aggiungeva inoltre che, una volta scoperchiato il calderone, sarebbe stato impossibile richiuderlo. Anche a causa dell’estrema permeabilità dei confini libici (soprattutto al Sud).
Nelle pagine del libro la Clinton si lascia andare a qualche timido riconoscimento, ammettendo – a posteriori – che proprio così stavano le cose. Tuttavia si lasciò convincere da Mahmud Jibril, uno studioso di scienze politiche che aveva conseguito il dottorato negli Stati Uniti, circa la presenza in Libia di consistenti forze liberaldemocratiche desiderose di avviare il Paese sulla strada della democrazia occidentale. Divertente notare che l’organizzatore dell’incontro fu Bernard-Henri Lévy, il più celebre esponente della “Nuova filosofia” francese che, negli anni ’70 del secolo scorso, condusse una critica radicale del marxismo proponendo al contempo il superamento del capitalismo.
Una corrente – a dir poco – confusa, il cui momento di celebrità si esaurì ben presto. Tant’è vero che lo stesso Lévy abbandonò in seguito la produzione filosofica per dedicarsi al giornalismo e a varie attività imprenditoriali. La coppia Jibril-Lévy riuscì comunque a persuadere Hillary Clinton che l’alba della democrazia liberale stava spuntando nei cieli dell’ex colonia italiana. Ciò non fece comunque perdere ogni prudenza alla ex Segretario di Stato, che infatti si preoccupò di avviare un intervento autorizzato dall’ONU e concertato con le altre potenze occidentali.
Il fatto è che i francesi smaniavano dalla voglia di attaccare subito e comunque. A p. 482 leggiamo infatti che “prima ancora dell’inizio della riunione ufficiale, Sarkozy prese da parte me e il premier inglese, David Cameron, e ci confidò che gli aerei da guerra francesi erano già in volo verso la Libia. Quando scoprirono che la Francia era partita prima del via, gli altri Paesi si inalberarono”. E qui un breve cenno a Berlusconi, secondo l’autrice contrario all’intervento perché voleva fosse l’Italia a sparare il primo colpo. Interpretazione piuttosto dubbia. In realtà l’ex premier conosceva la situazione libica (e lo stesso Gheddafi) assai meglio degli altri, e giustamente temeva che l’attacco avrebbe avuto conseguenze molto pesanti per i nostri consistenti interessi in loco.
Comunque sia, il racconto dà l’impressione di una sorta di soap opera che sicuramente non giova all’immagine dell’Occidente. Come non giovano a tale immagine le poco convincenti spiegazioni che, nel capitolo successivo, la stessa Clinton offre a proposito del barbaro assassinio dell’ambasciatore USA a Bengasi l’11 settembre 2012. E’, questo, un vero “buco nero”, e i repubblicani hanno già annunciato che lo sfrutteranno a dovere nella campagna elettorale qualora l’autrice del volume dovesse essere il candidato democratico alla presidenza. Per fortuna, vien da pensare, il Presidente Obama in seguito non ha dato retta ai francesi che ancora una volta spingevano per un attacco immediato alla Siria di Assad.
Concludo con due brevi note. In primo luogo il libro conferma l’impressione – da molti condivisa – che la politica estera USA sia stata gestita in questi ultimi anni con metodi un po’ dilettanteschi. In precedenza non era così. Si poteva concordare o meno sulle linee generali, ma si sentiva in ogni caso la presenza di una mano ferma e di una strategia globale. In secondo luogo mi sembra ovvio che ci vorrà del tempo prima che l’Occidente – di cui gli Stati Uniti conservano la leadership – riesca a recuperare nel mondo il prestigio che ora ha almeno in parte perduto.
Featured image, Hillary Clinton.