Magazine Cinema
Il Giappone.
Il terremoto.
All’interno, intorno e all’esterno di queste tre strutture prende forma Himizu (2011), ennesimo devastante capitolo di una filmografia in perenne sgretolamento, film che come al solito mostra l’altissimo tasso autoreferenziale del regista perché ancora una volta la cellula della società, il mattone della comunità: la famiglia, viene polverizzato, maciullato sotto i colpi di ruoli e identità plasmati nell’illogicità, nella perpetrazione del sopruso, e poi scambiati, rivoltati, in un gioco che come sempre è all’eccesso ma che, come sempre, non naufraga mai nell’esibizione, nella gratuità di mostrare la sopraffazione, perché nel cinema di Sono, grazie ad un miracolo che forse è meglio non svelare, la violenza è parte fondante della storia e permette di delineare i contorni dei personaggi senza psicologismi narcotizzanti: è cinema di schiaffi che colpisce e lascia il livido, un’ecchimosi di consapevolezza: film così li fa solo lui poiché oltre ad una caratterizzazione unica dei suoi attori, Sono riesce a far convivere nell’ecosistema diegetico un ventaglio di generi che per ampiezza inonda di brio la visione: non c’è un attimo di respiro nel passare dall’ottovolante della commedia più ingenua al teen-movie di formazione, dal gangster-movie più pacchiano al dramma introspettivo. Sebbene tutto ciò sia già stato proposto all’interno dell’opera-monstre Love Exposure (2008), Sono non pecca mai di derivazione né ama sedersi sugli allori: in ogni tassello della sua carriera si rigenera con rinnovata potenza un senso di sofferenza artistica che non sarà di certo il sottoscritto a tentare di descrivere.
La conferma sononiana è solo una porzione della sfera Himizu perché se è vero che l’isterica impostazione bildungsroman tiene banco dal primo all’ultimo minuto, è ancora più vero che nel cuore del film sussiste un parallelo improntato all’autosostentamento, ovvero a trovare la propria benzina allegorica all’interno delle dinamiche di superficie. È un parallelo che nonostante sia messo in luce senza sotterfugi, non lede affatto, si scrolla di dosso ogni possibile evidenziazione didascalica e si apre così, rovinoso e sconquassante, nei confronti dello spettatore, perché è chiaro: Sumida è il Giappone. La traslazione di un Paese in ginocchio nel corpo di un ragazzino altrettanto disperato crea un doppio canale riflettente laddove le vicissitudini di Sumida abbracciano questioni molto più ampie, strettamente legate alla nazione di appartenenza e interpretabili come lame che fendono piaghe a cui è praticamente impossibile abituarsi: chi vede la follia nel padre che invita il figlio al suicidio non vede l’idea del presente giapponese che non crede nell’avvenire, chi vede nel gesto dell’anziano un semplice modo per sdebitarsi dell’accoglienza ricevuta non vede la solidarietà fra chi pur non avendo più nulla spera ancora nel futuro, chi vede negli episodi urbani delle imbottiture narrative non vede le scorie di una catastrofe umana ancor prima che naturale, chi vede nell’alter-ego femminile una banale deviazione sentimentale non vede nella prossimità uomo-donna il primo passo per provare ad immaginarsi… felici.
Presentato a Venezia ’11 dove i due giovani protagonisti si sono portati a casa il Premio Mastroianni, Himizu può vantare inoltre un cast di interpreti eccezionali che in passato hanno già lavorato col regista (ci sono i volti di Cold Fish [2010] e Guilty of Romance [2011]). Piena di trovate che saziano l’appetito estetico, la pellicola sciorina situazioni magistrali come l’uccisione del padre (un pianosequenza al chiaro di luna con un magnifico carrello in ascensione) e scorci intensissimi come il dialogo tra il vecchio ed il boss mafioso o quello tra Keiko e Sumida nel finale.
In attesa di nuovi sismi filmici, il consiglio è: amate Sion Sono come se non ci fosse un domani.
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