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Ho bevuto un caffé con Nicolai Lilin

Creato il 21 febbraio 2013 da Martahasflowers

(PREMESSA NECESSARIA:  questa intervista doveva essere pubblicata su Linkiesta.it. Per solidarietà con il direttore Jacopo Tondelli che si è dimesso per le ragioni che si possono leggere qui, anche io interrompo il mio rapporto di blogger con quello che era un bellissimo quotidiano online. Mannaggia. Da oggi, se la situazione non cambierà, i miei post sul cinema li pubblicherò qui, che è sempre la mia casa).
Ho bevuto un caffé con Nicolai Lilin
Ci incontriamo in uno di quei tipici café milanesi di design dove puoi gustare zuppe vegetariane, muffin al mirtillo e  succhi  rigorosamente bio. Niente di più lontano dal mondo duro, violento, tragico descritto da Nicolai Lilin nel suo romanzo Educazione Siberiana, tradotto in 14 lingue.Siamo qui per parlare del film tratto da quel libro, che uscirà il 28 febbraio con la regia di Gabriele Salvatores e con un cast che vede attori noti come John Malkovich e Peter Stormare accanto a giovanissimi interpreti lituani come Arnas Fedaravicius e Vilius Tumalavicius. È un momento importante, questo, per Nicolai Lilin, 33 anni, scrittore e tatuatore russo, nato e cresciuto in Transnistria, sperduta e tormentata regione della Moldavia, ma da tanti anni in Italia: è infatti la sua consacrazione anche come grande autore cinematografico. Nicola mi conferma che è travolto da un turbinio di impegni promozionali, interviste, presentazioni, che lo affaticano moltissimo. Nonostante questo, è davvero molto gentile, disponibile, perfino premuroso. E quasi si fa fatica a credere che sia proprio questo giovane uomo dai lineamenti delicati ad avere scritto scene tra le più crude e violente che io abbia mai letto, scene che mi hanno tolto il sonno. Che sia lui ad averle davvero vissute, ad aver frequentato e narrato la comunità dei criminali siberiani trapiantati in Transnistria, un gruppo di “fuorilegge onesti”, con la loro storia tatuata sulla pelle e seguaci di un’etica rigorosa quanto, a volte, spietata. E allora non stupisce che dietro quel parlare mite trapeli qualcosa di inquietante, qualcosa di trattenuto che riverbera nei suoi occhi blu scuro sempre sfuggenti e nei suoi movimenti rigidi, come un’armatura a proteggere tumulti. Lascio da parte questi pensieri e comincio l’intervista.
Che ruolo hai avuto nella realizzazione del film?All’inizio dovevo partecipare solo alla sceneggiatura. Con Stefano Rulli, Sandro Petraglia e Gabriele, partendo da uno scheletro di storia, abbiamo scritto le scene cercando di dare profondità all’ambientazione, siamo poi passati ai dialoghi e abbiamo creato moltissime situazioni che mancavano. È stato un lavoro lungo perché la scrittura di una sceneggiatura è molto complessa e quando più persone vi partecipano è ancora più difficile.
Quanto tempo ci avete messo?Quasi un anno per arrivare a un testo definitivo. Ma una sceneggiatura non è mai definitiva perché quando poi si comincia a girare qualcosa cambia sempre: Gabriele modificava i dialoghi, qualche scena, come è giusto che faccia un vero regista.
Sceneggiatura a parte, hai fatto anche da consulente per altri elementi presenti nel film…Sì, mi hanno coinvolto in modo totale anche nella produzione. Ho partecipato alla scelta degli attori e ai loro training. Ma mi sono dedicato soprattutto alle armi e ai tatuaggi, che sono elementi centrali nella storia. Ho anche dato una mano a ricostruire le parti veritiere del film.
In che senso le parti veritiere? Educazione Siberiana non è un film essenzialmente realista?Non esattamente. Gabriele ha voluto creare un non-luogo, un mondo quasi fiabesco dove si mischiassero tempi diversi. Del resto era così anche la vita vera in Unione Sovietica, soprattutto nelle zone lontane da Mosca o da San Pietroburgo, dove l’evoluzione tecnologica si era fermata negli anni Sessanta e la vita, anche negli anni Novanta, aveva le sembianze di un passato. In questa ricostruzione ci hanno aiutato anche i luoghi in Lituania dove siamo andati a girare. Là, infatti, ci sono città che sono in tutto e per tutto europee, ma se ti allontani di 50 km trovi ambienti rurali che sembrano congelati negli anni Trenta, dove la gente vive  in un degrado totale, con gravi problemi di alcolismo diffuso. In uno di questi posti dove giravamo, per esempio, c’era davvero una famiglia di alcolizzati.  Loro venivano spesso a chiederci le sigarette: quando spuntavano dalla loro casa sembravano arrivare da un altro tempo, da una realtà indefinita. Qualcuno ha addirittura proposto di farli entrare nel film perché erano perfetti, non avevano bisogno di trucco né di costumi.
Hai contribuito anche alla scelta delle armi, dicevi…Più che alla scelta, alla loro produzione vera e propria. Sto parlando in particolare delle armi bianche: le ho dovute realizzare direttamente, perché è impossibile trovare i coltelli siberiani in Italia, ma non è semplice nemmeno rintracciarli in internet. Ci ho provato, ma ora in Russia c’è una legge che proibisce le armi dotate di para-mano, un sistema che impedisce alla mano di scivolare sulla lama e che è una delle caratteristiche del coltello siberiano. È una legge che punta ad arginare le conseguenze delle risse tra i ragazzini, ma è assurdo perché quello che serve per frenare la violenza è l’educazione all’uso delle armi, non la proibizione delle armi. Alla fine, comunque, ho capito che l’unico modo per avere i coltelli siberiani era produrli. Ho contattato un’azienda di Maniago, la Maserin. Loro insieme al mio amico Paolo Pinna, un bravissimo artigiano sardo, hanno realizzato i coltelli per il film a partire dai miei disegni.
Parlami dei tatuaggi, invece.Gabriele voleva che i tatuaggi lo aiutassero a creare veri e propri ambienti visivi. Erano quindi centrali sia per la sceneggiatura sia per la scenografia. Io avrò fatto 250 - 300 disegni e poi Maurizio Nardi, un make-up artist che aveva lavorato con Mel Gibson in Apocalypto,  ha inventato una tecnica per trasportare i tatuaggi sulla pelle degli attori nel modo più veloce ma anche più realistico possibile. È stato un lavoro pazzesco… Nardi ed io ci svegliavamo alle cinque di mattina, alle sei arrivavano gli attori e per un’ora e mezzo applicavamo i tatuaggi con i miei disegni a Malcovich, a Stormare e agli altri interpreti. Poi Nardi ritoccava le impronte in un modo particolare per cui alla fine il tatuaggio sembrava proprio vero, come fosse stato sul serio sotto la pelle.
È stato strano per te vedere gli attori che interpretavano Kolyma, che è una sorta di tuo alter ego, o i tuoi amici?No, perché in realtà io non percepisco questo film come la mia storia. Già il mio libro non è la mia storia. Tutto ciò che ho scritto partiva da fatti vissuti da me e da persone che io conoscevo, ma poi elaboravo ogni cosa in modo letterario: Educazione Siberiana non è un’autobiografia e nemmeno Kolyma è esattamente il mio specchio, anzi. Il film poi è ancora più lontano da me, perché è una storia sviluppata a partire dal libro, ma rivisitata cento volte. Nella sceneggiatura Rulli e Petraglia hanno messo tanto di loro. Non è assolutamente la mia storia.
Quale filone narrativo del tuo libro hanno sviluppato di più?Nessuno, ne hanno creato uno nuovo. Gabriele all’inizio voleva fare il film intorno a una storia in particolare tra quelle contenute nel mio romanzo, ma presto si è accorto che questa scelta rischiava di limitare la narrazione cinematografica.  Allora Rulli e Petraglia hanno proposto di sviluppare una storia nuova, un filone che abbiamo effettivamente seguito e sviluppato. Si può dire che il libro è servito per creare il background del film, per trovare personaggi e caratteri. Ma la cosa più importante era il senso del libro, che Gabriele ha colto in pieno.
E qual è questo senso che Salvatores ha capito?Quando mi sono arrivate le prime proposte cinematografiche, quasi tutti i produttori e i registi mi dicevano che vedevano nella mia storia un “Romanzo Criminale” in salsa siberiana, un misto di storie di delinquenti che si ammazzano tra loro. Ma nel mio libro la criminalità è solo una circostanza, anche se forte. Il senso del libro è un altro: a me interessava raccontare, attraverso storie personali, il processo di cambiamento che ha vissuto la mia generazione in Unione Sovietica sotto la spinta di un’occidentalizzazione forzata del Paese. Gabriele è stato il primo regista che ha visto questo nel mio libro. Mi ha detto che Educazione Siberiana è una bellissima storia in cui si vede come sparisce il mondo arcaico sotto la pressione del consumismo occidentale. Ascoltate quelle sue parole, ho capito che avrei potuto lavorare con lui.
E così è stato?Così è stato. L’intento del film è proprio questo: raccontare che cosa aiuta un essere umano a rimanere se stesso, a non cambiare e che cosa invece può portare alla rovina, verso la distruzione, come reagisce una società, una mentalità di fronte a cambiamenti epocali.
A proposito di storie personali, c’è un personaggio nel tuo libro che ho trovato meraviglioso anche se in fondo l’hai solo abbozzato. Sto parlando di Ksusjia, l’amica autistica di Kolyma… Nel film è rimasta?  Sì nel film c’è, si chiama Xenja però, ed è uno dei personaggi principali. Anzi è tra quelli rimasti più fedeli. Io nel libro mi sono concentrato più sulla descrizione dei sentimenti di Kolyma nei suoi confronti e ho tralasciato un po’ di descrivere quelli che erano i sentimenti reciproci dei due ragazzi.  Nel film il senso della relazione tra il protagonista e questa ragazza viene invece raccontato molto bene. C’è stato un grande lavoro per fare capire agli attori che li interpretavano quel era il cruccio di entrambi: il bisogno che avevano di conoscersi. Eleanor Tomlinson,  che interpretava Xenia, e anche il protagonista Arnas Fedaravicius sono stati bravissimi: hanno fatto un grande lavoro di avvicinamento con l’aiuto anche di alcuni psicologi. Eleanor ha fatto un laboratorio in cui le hanno spiegato come si comporta una persona con quella disabilità e lei l’ha resa molto bene, sembrava vera, il suo sguardo era border line, è stata bravissima.
La vicenda legata a Ksusjia (o Xenja) nel libro è uno degli elementi che scatena la rottura di Kolyma con il suo passato…Sì, lo è stata quella vicenda e l’esperienza in carcere, che per me è stata davvero rieducativa. Non perché in prigione io abbia capito il valore della società, ma perché la brutalità vissuta lì mi ha dato la possibilità di apprezzare quel poco che c’era fuori. Non volevo più tornare dentro. Considera che avevo 13 anni quando ho vissuto tutto questo. I miei amici si drogavano, andavano in discoteca, mentre io, una volta tornato a casa, ragionavo già come una persona adulta e cercavo di trovare la mia strada altrove…
Eppure da quel che si legge nel tuo libro per la società di questi criminali siberiani l’esperienza in carcere era considerata motivo di orgoglio, una medaglia…Sì. Questo era vero in quella società, ma in realtà, quando io sono nato, di quel mondo era rimasta solo una trentina di uomini vecchi che vivevano in una realtà che cambiava ogni giorno attorno a loro e non c’era quasi nessuno che aveva voglia di capirli e di seguirli. Era anche molto difficile entrare in confidenza con loro… io ero così incuriosito che da bambino pur di potermi avvicinare a loro praticamente facevo da schiavo al gruppo. Ero incuriosito dai loro tatuaggi, e poi sentivo che loro sapevano della vita qualcosa di più di quel che sapevo io ma anche di quel che sapevano mio padre e i suoi amici.  Vedevo persone con alle spalle 30–35 anni di carceri sovietici, che erano sopravvissute a quelle brutalità, e  poi vedevo persone a me più vicine, di 35 anni, morire in situazioni stupidissime, magari traditi dagli amici. Allora era normale chiedersi se avevano ragione i vecchi, se ai giovani era sfuggito qualcosa…
Vuoi dire che l’etica originale dei criminali siberiani in qualche modo li ha protetti?Sì, però è giusto che quell’etica sia finita perché anche loro erano estremisti, orribilmente omofobi e il fatto che adesso siano spariti è normale.
Il tuo libro descrive in modo dettagliato episodi di violenza molto forte. Questa violenza è presente anche nel film?Nel film la violenza c’è, ma Gabriele ha saputo raccontarla bene e metterla in un contesto accettabile. Infatti dai sondaggi che sono stati fatti è emerso che il film è piaciuto molto alle donne, proprio perché c’è stata una gestione intelligente della violenza presente nella storia. E poi comunque nemmeno a me interessava raccontare la violenza, volevo invece fare capire qual è il percorso sensato di una violenza reale, vera. Quando la violenza ha un percorso che si conclude, infatti, può anche essere positiva perché insegna qualcosa. Nella rissa in sé non c’è niente di male.
In che senso? È ovvio che è illegale e qualcuno può morire, ma quando io prendo un coltello e una mazza e vado per strada apposta per picchiare qualcuno sapendo che anche lui mi aspetta con una mazza e un coltello si ottiene un atto consensuale alla violenza e io non ci vedo niente di male. Quello che mi spaventa, invece, è la violenza dei giorni nostri, che è diventata immune. Un ragazzino davanti a un pc può massacrare la gente con coltelli e fucili. Poi diventa un adulto che paga i contributi, va a votare e chiama questo genere di esperienze virtuali “divertimento”. Invece non è divertimento. La violenza dei videogame è pericolosa perché non ha alcuna conclusione educativa e trasforma la violenza in un fatto normale, quotidiano. Basta guardare ai soldati americani, che vanno in una guerra lontana da casa e una volta lì compiono misfatti vergognosi. Perché quando ammazzi una persona lo devi fare con rispetto, chiunque sia, non si può riderne o mettere il video su youtube come è successo in questi anni. A me fa più paura questo tipo di violenza.
Secondo te il film riesce a passare questo messaggio sulla violenza?Sì, assolutamente, perché è la stessa impostazione etica di Gabriele, che non sarebbe capace di fare un film violento fine a se stesso.
Che cosa hai imparato tu da questa esperienza?Tantissimo! Sia per quanto riguarda la scrittura sia per la relazioni tra i generi espressivi. Ho capito che non si può giudicare un film tratto da un libro partendo da quel libro, dal grado di rispetto che il regista ha avuto nei confronti della parola scritta. È un modo di ragionare molto superficiale, perché il cinema è tutta un’altra cosa dalla letteratura. Basta pensare che in 120 minuti non è possibile narrare le stesse cose raccontate in 300 pagine di un libro. All’inizio ero prevenuto perché molti scrittori mi avevano messo in guardia da questa esperienza, mi avevano detto che mi avrebbero stravolto il libro e la mia scrittura. Invece il cinema è qualcosa di così diverso che se decidi di vendere i diritti, devi accettare il fatto che stai creando altro. Bisogna essere generosi.
Da quando hai capito questo ti sei fidato di Salvatores…No, mi sono fidato di Salvatores da subito perché nei suoi film è sempre riuscito a raccontare vicende pesanti attraverso storie intime. Tra i miei dieci film preferiti di sempre c’è per esempio Mediterraneo, che io ho visto in Russia appena dopo la guerra. In Mediterraneo la brutalità della guerra viene raccontata attraverso piccoli episodi di normalità. Ed è giusto, perché la durezza della guerra non si percepisce quando buttano le bombe o sparano e le gente muore, quelli sono momenti talmente veloci che  non ne hai consapevolezza. Il peso della guerra ti cala addosso nei momenti calmi, di pace, quando imburri una fetta di pane, quando ti lavi, quando stai per addormentarti. Lì ti rendi conto che stai vivendo una situazione disumana.
Mentre scrivevi il libro te lo immaginavi che potesse diventare un film?Assolutamente no! Io ho scritto il libro in un periodo della vita in cui facevo anche altre cose… A me è accaduto un po’ tutto “come la neve sulla testa”, come dicono in Russia. Senza preavviso. Non pensavo nemmeno di diventare uno scrittore, né di avere successo…


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