«La vita fugge, et non s’arresta una hora, / et la morte vien dietro a gran giornate, / et le cose presenti et le passate / mi dànno guerra, et le future anchora». Eugenio Montale pensava probabilmente a questi versi del Canzoniere di Francesco Petrarca quando componeva Poiché la vita fugge.
Nonostante la fugacità della vita che «non s’arresta una hora», con il suo nemico mortale che le “vien dietro”, il poeta ligure avverte che non possiamo dimettere la speranza: «Non buttiamo già in un gorgo senza fondo / le nostre vite randage» perché le nostre esistenze, che l’illusione brucia in «un fuoco pieno di cenere / si perdono nel sereno / di una certezza: la luce» (Non rifugiarti nell’ombra, in Ossi di seppia). E perché tu «Poi dal flotto di cenere uscirai / adusta più che mai» (Falsetto, in Ossi di seppia).
La vita quindi si impone, nonostante l’umana inconsistenza, con il suo rivelarsi. È come tra i campi, nei frutteti, «nel profumo che dilaga / quando il giorno più languisce». E «qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore dei limoni» (I limoni, in Ossi di seppia). La vita si impone, come si impone l’effluvio penetrante del limone.
«Fummo felici un giorno, un’ora, un attimo / e questo potrà essere distrutto?» scrive Montale in Poiché la vita fugge. Dunque, si può dire che la morte abbia il potere di distruggere anche soltanto «un giorno, un’ora, un attimo» della felicità? È difficile pensare che ci sia qualcosa che abbia «la virtù di galleggiare / sulla cresta delle onde / quando il diluvio avrà sommerso tutto» e anche di ciò diranno «ch’è una stoltezza dirselo», come si legge invece in Prima del viaggio. È vero però che questa è una speranza che non può essere taciuta, la speranza cioè che un imprevisto scuota il destino e faccia giustizia del cuore che aspira alla felicità.
Basta anche soltanto il richiamo della governante a ridestare il cuore: «Gina all’alba mi dice / il merlo è sulla frasca / e dondola felice» (Il giorno dei morti, in Quaderno di quattro anni). Non è la morte dunque che restringe l’orizzonte dello sguardo – sembra essere questa la risposta di Montale a Petrarca. È la dimenticanza di quel momento, per quanto breve, – un giorno, un’ora, un attimo – in cui è stato consegnato al cuore dell’uomo, come al merlo montaliano, la promessa della felicità. «È una stoltezza dirselo?» Stoltezza, ci suggerisce Montale in Prima del viaggio, non è l’attesa del compimento della promessa, è piuttosto la censura di quell’evento imprevisto, capace di trasformare la vita. «Prima del viaggio si scrutano gli orari, / le coincidenze, le soste, le pernottazioni / e le prenotazioni; // si consultano / le guide Hechette e quelle dei musei […] // E ora che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato/ senza saperne nulla. Un imprevisto / è la sola speranza».
Eugenio Montale, premio Nobel per la letteratura, moriva il 12 settembre 1981 nella clinica San Pio X di Milano. Il Corriere della Sera, al quale Montale collaborava, nell’edizione del giorno dopo, pubblicava Poiché la vita fugge, una delle ultime poesie composte, che anche qui abbiamo riproposto e nel quale il poeta confida il suo finale presentimento: «Se non di me almeno qualche briciola / di te dovrebbe vincere l’oblio».
Nel “gorgo senza fondo”, a questa “briciola di te” ogni uomo potrà aggrapparsi. Ho sceso, dandoti il braccio è il titolo di una poesia della raccolta Satura. «Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio» scrive Montale, «con te le ho scese».
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