di Antonio Scarazzini
Nascosta nelle pieghe di un discorso in fin dei conti privo di coup de theatre e artifici retorici, nelle prime parole da Presidente neoeletto di François Hollande l’Europa non ha spiccato rispetto agli altri temi forti della sua campagna: richiamo ai valori nazionali, difesa dell’uguaglianza e dello stato sociale, appello alla legalità e promesse alle generazioni più giovani. Dal palco allestito a Tulle, cittadina della Corrèze che lo ha formato come leader socialista, Hollande ha ricordato che il fiscal compact tutto rigore e austerità rimarrà monco e inefficace se i capi di Stato e di Governo dell’UE non procederanno sulla strada delle riforme per la crescita. Nessuna fuga in avanti, nessuno scostamento da quel progetto di revisione del Trattato sul Patto di Bilancio, firmato lo scorso 2 marzo, cui Hollande tributerà i suoi primi sforzi da neo inquilino dell’Eliseo; i mercati finanziari, che alcuni volevano terrorizzati dalle proposte di aliquote più gravose sui redditi più alti e nuovi prelievi sugli utili bancari, hanno risposto con entusiasmo dopo un primo momento di incertezza da addebitarsi al contemporaneo disfacimento degli assetti politici in Grecia.
Ma chi è in realtà François Hollande? Il temibile futuro Presidente dipinto dall’Economist al termine del primo turno di votazioni o il Presidente della normalità che ha raccolto il voto di una Francia sempre meno convinta dai toni sensazionalistici di Nicolas Sarkozy?
Difficile pronosticare se il ritorno all’Eliseo di un Presidente socialista, il secondo nella Quinta Repubblica a diciassette anni dall’uscita di scena di Mitterrand, romperà definitivamente l’asse franco-tedesco – se mai è esistita simmetria nel duo Merkel-Sarkozy – che ha sinora guidato l’Europa nella crisi di un’unione monetaria ed economica priva di progettualità politica.
Quel che è certo è che la priorità della crescita accomuna, almeno negli intenti, i progetti di socialdemocrazia di François Hollande alla ricetta market-friendly di Mario Monti e Mario Draghi, così come l’allentamento dei vincoli di austerità di bilancio attrae l’incespicante governo di Mariano Rajoy. Spetterà al neo Presidente individuare il compromesso tra esigenze di coordinamento in sede europea e difesa di uno Stato sociale che in Francia sembra corrispondere più ad istanze conservatrici che al cambiamento su cui Hollande ha fondato la sua elezione.
La promessa di maggiori spese sociali – le ormai celebri 60000 nuove cattedre – e di un aumento del prelievo fiscale sui redditi più alti, stonano con la “regola d’oro” del pareggio di bilancio in costituzione e, più in generale, contro le misure d’austerità proposte da Berlino nel patto di bilancio. Con la spesa pubblica oltre il 55% del PIL, un deficit attestato attorno al 4,5% ed un debito che supera il 80% del prodotto interno lordo, anche la salute delle finanze pubbliche francesi non è inoltre estranea a fattori di crisi, ma le campagne di Hollande e dello stesso Sarkozy, sino all’ultimo aggrappato al vanto della “tripla A”, non hanno avuto il coraggio di prospettare un riassetto a garanzia della sostenibilità del welfare.
Gli obiettivi che Hollande si è dato in materia, 2013 per il deficit al 3% e 2017 per il pareggio, peccano nelle stime dei tagli necessari ma l’engagement, l’impegno che Hollande si è assunto nei confronti dei francesi sembra comunque contenere i prodromi di un sincero europeismo: la sua dedizione alla crescita ha valore sia sul piano interno, per far fronte ad una disoccupazione al 10% ed un calo della produzione industriale, ma nasconde una portata più vasta.
Il mercato unico necessita di nuovo slancio, la domanda interna deve tornare a crescere per far rifiatare le esportazioni di tutti i Paesi europei, Francia compresa: per quanto Parigi debba interrogarsi sulla necessità di rilanciare la propria competitività, la vera credibilità di Hollande sulla scena europea si testerà probabilmente sulla capacità di ottenere maggiore assertività nel dialogo con Angela Merkel, senza appiattirsi sulle posizioni di Berlino per garantirsi legittimità nei confronti degli altri interlocutori.
In luogo del metodo intergovernativo di cui Sarkozy è stato sponsor, Hollande si è da subito schierato dalla parte degli eurobonds e della mutualizzazione del debito nell’area euro, segnando un primo punto a favore di una vera unione fiscale cui, in fondo, il duo Merkozy non aveva mai voluto dare troppo seguito. Il neo Presidente fa l’occhiolino anche alla Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, gradita tra gli altri a Mario Monti ma forse troppo amara per una Gran Bretagna alle prese con un euroscetticismo in ascesa. Interessante anche la proposta che mira a sbloccare la consistente fetta di fondi strutturali ancora inutilizzati per mobilitarli in progetti infrastrutturali, sostenuti anche dalla BEI, sulla scia dei project bonds proposti dal Presidente della Commissione Barroso e dallo stesso Premier Monti pochi giorni orsono. Come auspicato anche dall’economista Jean Paul Fitoussi, Francois Hollande sarà veramente la last chance dell’Europa se riuscirà a guadagnare credibilità nell’opinione pubblica e nei suoi colleghi stranieri, coagulando su di sé il fronte che esige un’Europa più responsabile nei confronti dei suoi cittadini, capace di dotarsi di un nuovo modello di crescita e di Stato sociale.
I primi giorni di mandato saranno cruciali per designare il destino della presidenza Hollande: dalla Germania il Ministro degli Esteri Westervelle ha fatto sapere che i due Paesi lavoreranno fianco a fianco per un percorso di crescita, mentre i risultati della tornata elettorale in Grecia ricordano a tutti quanto l’immobilità istituzionale europea e l’asfissiante austerità forniscano terreno fertile all’estremizzazione della politica e del sentimento antieuropeo. Minaccia che la Francia ha vissuto di fronte all’exploit del Front National, con Marine Le Pen pronta a rilanciare il voto “Bleu Marine” per le legislative di giugno e ad approfittare dello sfaldamento dell’UMP, ormai orfana di Sarkozy, attorno a quelle istanze protezionistiche che, non senza qualche imbarazzo, il Presidente uscente aveva cercato di incarnare nei mesi conclusivi della sua campagna elettorale.
La sfida che il settimo Presidente della Quinta Repubblica si appresta ad intraprendere ricorda allora, almeno sul piano formale, gli sforzi che Lionel Jospin spese nel 1997 per convincere la Germania ad integrare la dimensione della crescita nel Patto di Stabilità poi annesso al Trattato di Amsterdam. I contesti internazionali attuali e la debolezza di un’Europa politica che a vent’anni da Maastricht ancora si fa desiderare, ne ampliano invece la portata: se Hollande saprà ridare convinzione all’azione francese in Europa, sposando lo spirito visionario dei suoi maestri Mitterrand e Delors, il motore tedesco del processo d’integrazione avrà ritrovato il suo più valido alleato.