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“Homicide, A Year on the Killing Streets” di David Simon, il dio di Baltimora che creò "The Wire"

Creato il 05 aprile 2013 da Sulromanzo

Homicide, A Year on the Killing Streets, David SimonUn appello alle case editrici italiane, ad alcune di loro, e poi comincio.
È importante, oltre che necessario, far conoscere Homicide ai lettori italiani. Penso a Giano che, qualche anno fa, pubblicò, per  la collana “Nerogiano”, il notevole La vita facile di Richard Price (autore di The Wanderers e Clockers: libro da cui Scorsese e Spike Lee… ecc.); a ISBN, Alet, Meridiano nero, Minimum Fax; breve lista non scritta a casaccio: ognuno di questi editori ha degli ottimi motivi – diversi da casa a casa – per raccogliere questa mia richiesta.
David Simon in fondo al libro racconta la fortuna di questa sua strana creatura: quanto poco, all’indomani della pubblicazione, fosse circolato perché ritenuto un libro regionale, che parlava solo di Baltimora; allo stesso modo di Gomorra che racconta una buco nero che, come tutti i buchi neri che si rispettino, attrae tutto il resto. Homicide ha quindi la stessa gravità, lo stesso volume – peso specifico – culturale del libro di Saviano e,  per soprammercato, è scritto molto (ma molto) meglio.
Homicide, A Year on the Killing Streets è un rapporto sullo stato delle strade di una città che produce una media di 250 omicidi l’anno. Scrivo “rapporto” e penso a “relazione”,  relazione non in quel senso (“ho scritto una relazione”) ma in quest’altro: legame dinamico e vivo tra il lettore e gli angoli di questa città dove la quasi costante penombra è squarciata solo dal fuoco degli spari e dalle grida delle vittime.

Cosa racconta questo libro? Un anno di vita della squadra omicidi di Baltimora. Un anno esatto: si comincia martedì 19 gennaio 1988 e si finisce il 31 dicembre. Poi segue un bellissimo Epilogo e una Postfazione, altrettanto bella, intitolata Postmortem, in cui Simon, con grande naturalezza, preso a raccontare altre vicende, dissemina qua e là ottimi consigli sulla scrittura, sull’apprendimento del mestiere di scrittore – grande fame e grande orecchio –, sulla scrittura  per la televisione, sul lento e doloroso prendere forma di questo librone di 600 pagine.
Dieci capitoli a loro volta suddivisi in date; ogni data, quasi ogni data, corrisponde a un omicidio:  sopralluogo, battute di routine sui cadaveri, il freddo che artiglia i corpi nelle notti invernali, il caldo noir d’estate; silenzio occhiuto dietro le finestre; strade, stradine, giardinetti deserti, se non fosse per un uomo disteso in una pozza di sangue e un gruppo di persone tra lampeggianti e asfalto che prendono nota, si guardano attorno, raccolgono, come fosse una preda, ogni trancio d’informazione che possa nutrire il caso, allevarlo, farlo crescere, svezzarlo, finché un giorno avrà il dono della parola per indicare l’assassino.
I motivi di riflessione suscitati da questo che chiamerei “deglamour noir”, o più semplicemente “noir sociale”, sono tanti, infiniti quasi. Il primo è proprio l’assetto, la postura di un assassinio, come viene descritto e raccontato e che tipo di riflessioni e suggestioni suscita nel lettore. Durante questo mese, ogni volta che chiudevo il libro e tornavo alle mie cose,  mi sono spesso scoperto a meditare a fondo, per la prima volta nella mia vita, sulla carne, le fattezze, l’anatomia dell’omicidio: torsione impensabile e semplice assieme. Il meglio che sono riuscito e cavarne fuori è questo: il caos armato di Baltimora si dirige qua e là, si concentra in un punto, diventa massa critica imbufalita e carica la realtà che, speronata, si arresta, viene scossa da convulsioni e crisi epilettiche  e, poi, continua la sua corsa verso… verso boh.

I detective arrivano con la loro auto e incontrano il luogo in cui la realtà è collassata. E come demoni furiosi tentano di capire, vedere, "arrestare"; arrestare questo delirare della realtà.
In queste pagine, non s’incontrano serial killer geniali con il ghigno da principi delle tenebre. Ci sono, però, violenze carnali su bambine di dodici anni, poi buttate come un sacco d’immondizia nei vicoli dietro le case popolari. L’assassino non è un genio del male, anzi,  a volte, i sospetti cadono su un pescivendolo sciatto, duro e muto come una pietra; un puttaniere sposato che tiene la sua auto pulitissima e vive a casa tra l’immondizia. E poi ci sono omicidi tra spacciatori, di continuo;  ritorsioni, sgarbi puniti con la pistola, vendette, avventure disgraziate.

Da lettore, a catturarmi sono stati i detective, la loro tessitura umana. Sembrano, come dicevo, vagabondi, demoni miltoniani che parlottano tra loro; irrequieti, mastodontici, con vite scombinate, estranei alle dolcezze, alle tenerezze, cinici e duri, ma con un isolotto interiore soffice e remoto, fatto di compassione e malinconia, che si manifesta attraverso le indagini, quando si scatenano come lupi in cerca di una preda che c'è ma non c'è.

Le pagine dedicate all’esame della scena del delitto sono maestose. Un paio d’ investigatori la osservano come l'opera di un artista moderno che ha dimenticato di metterci dentro qualcosa e quell'assenza, quel fantasma cominciano a seguire, spiritati e colmi d'istinto. Restano ore in contemplazione, appuntano, disegnano, veloci come topi si abbassano a terra, individuano tutti i punti di vista che guardano il cadavere. Fermi, respirano l’eco della morte, per niente romantici, ma con gli occhi fissi e mobili, in meditazione su quel pezzo di realtà squarciata.
Qui siamo lontanissimi dalla televisione, come Kojak ad esempio, che i detective guardano in attesa di una chiamata e deridono per le deliberate storture della tivù che, in quaranta minuti, deve tirar fuori un assassino. È più dura di così, molto più dura. Pare che i detective lavorino sul nulla, dentro l’oscurità. C’è un corpo, e tutto quello che lo circonda può essere indizio o immondizia. Cartacce per terra, bidoni della spazzatura: dentro c’è un bastone, è sporco di sangue? Sono peli pubici quelli? Tracce di sangue che portano in una direzione e poi scompaiono; un’auto che sembra parcheggiata in fretta e furia rispetto alle altre; forse l’assassino ha ucciso in casa sua e poi ha deciso di scaricare  il cadavere in questa strada secondaria, mentre scaricava ha sentito una sirena in lontananza, si è spaventato, ha parcheggiato e si è dileguato a piedi? Di chi è l’auto? Il motore è caldo? Tutto e niente. Si è costretti a pensare quanto aperta e dispersiva sia la realtà e quanto poco significhi. Il detective opera una selezione tra quel che è scena del delitto e quel che, invece, è pura realtà quotidiana, che si trova tra i piedi incasinando tutto. E i detective questa selezione pare riescano a farla con un istinto demoniaco. A volte funziona, altre volte no. Quando no, vengono inghiottiti da un delitto. Come il detective Pellegrini che, per un anno, indaga l’omicidio di Latonya Wallace (ragazzina di dodici trovata all’alba in mezzo a una stradina). Torna e ritorna sulla scena, studia, incrocia dati, prende appunti. (Sì, fanno pensare a certi romanzieri di razza). Interroga, incontra, ricerca e si trasforma in un sonnambulo, costruisce una sorta di cripta, di santuario fatto di prove sperando che appaia un santo di strada che porti luce, luce su un fatto, un indizio, o il legame tra questo e quello capace di indicare la via per la verità.

Ho scritto 1200 parole e sono riuscito a dire poco e nulla. L’impatto con la lettura è stato talmente forte che sono ancora frastornato. Le storie della città, le storie degli omicidi, le storie personali dei detective e quelle della squadra sono tante e formano un fiume lungo, carico e generoso.
Un’ultima considerazione: sono le parti povere di Baltimora, quella abitata dai bianchi e l’altra, abitata dai neri, dove si spara e muore a volontà. White trash vengono chiamati i bianchi sottoproletari – immondizia bianca –; ma anche i neri sono immondizia, parte della comunità usa e getta, abbandonati da tutti, senza scuole, senza speranza, senza una via d’uscita, senza niente, tranne pistole e droga e una frustrazione impossibile da sciogliere e lenire. Chiudo, quindi, con l’epigrafe che apre il libro di Simon:

«Deuteronomio 21; 1-9: Se nel paese di cui il Signore tuo Dio sta per darti il possesso, si troverà un uomo ucciso, disteso nella campagna, senza che si sappia chi l`abbia ucciso, i tuoi anziani e i tuoi giudici usciranno e misureranno la distanza fra l`ucciso e le città dei dintorni. Allora gli anziani della città più vicina all`ucciso prenderanno una giovenca che non abbia ancora lavorato né portato il giogo; gli anziani di quella città faranno scendere la giovenca presso un corso di acqua corrente, in luogo dove non si lavora e non si semina e là spezzeranno la nuca alla giovenca. Si avvicineranno poi i sacerdoti, figli di Levi, poiché il Signore tuo Dio li ha scelti per servirlo e per dare la benedizione nel nome del Signore e la loro parola dovrà decidere ogni controversia e ogni caso di lesione. Allora tutti gli anziani di quella città che sono più vicini al cadavere, si laveranno le mani sulla giovenca a cui sarà stata spezzata la nuca nel torrente; prendendo la parola diranno: Le nostre mani non hanno sparso questo sangue e i nostri occhi non l`hanno visto spargere. Signore, perdona al tuo popolo Israele, che tu hai redento, e non permettere che sangue innocente sia versato in mezzo al tuo popolo Israele, ma quel sangue sia per essi espiato. Così tu toglierai da te il sangue innocente, perché avrai fatto ciò che è retto agli occhi del Signore».

Vale a dire che ad ammazzare è spesso uno, di rado due, ma a sprigionare l’omicidio è tutta la comunità.

P.S.
Tranne che nel titolo non ho mai citato la serie TV The Wire, per coloro che la conoscono non c’è niente da aggiungere, per tutti gli altri: correte! 

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