Tra le 2900 «Parole da Salvare» dell’italiano della memoria, parole destinate ad un rapido oblio, secondo l’Osservatorio Zanichelli sulla lingua italiana, c’è anche ‘abulico’, un lemma dolcissimo ed insostituibile, la cui paventata scomparsa indica non solo un ennesimo affondo contro la bellezza, fin troppo offesa e sciupata, della lingua ‘dove’l sì suona’, ma anche il congedo da un modo di essere e di concepire il mondo. Non si tratta quindi solo del malinconico crepuscolo di un lemma, proditoriamente sostituito da altri che si segnalano per la loro sconcertante bruttezza, non si tratta solo di rendersi conto che tra un po’ nei nuovo vocabolari niente più si frapporrà tra abside e abusare. In realtà, l’eclisse dell’aggettivo ‘abulico’ coincide con la scomparsa di un modello antropologico, di un tipo umano, quello dell’ homo sapiens abulicus, un esemplare che, a modo suo, per lungo tempo, ha saputo demolire la stolta vanità delle vita e del mondo, attraverso la sapienza della sua flemma inossidabile, l’intelligenza della sua inattaccabile lentezza, la passione fredda delle sue esitazioni e torpidezze, la malizia recalcitrante dei suoi giudizi, l’ineffabilità del suo sorriso da Budda che illuminava, schernendola, la rabbiosa follia che agita le nostre giornate. Del resto, nell’epoca cialtrona del pragmatismo finto-efficientista, dell’apologia risibile del fare e dell’agire, del realizzare e del costruire, del ‘sono operativo’ assurto a demenziale dogma dell’ uomo/donna perennemente in carriera e competizione, dello slogan mietivoti e distruggipaesaggio ‘ perché noi siamo quelli del fare’, la figura indolente e melanconica dell’abulico sembra riaffiorare da un mondo che non c’è più, il retaggio di un modello di resistenza contro il decisionismo dei tempi nuovi, un segnale di grande spessore etico che indica nella requie, nella meditazione, nell’esitazione, nel dubbio, nel non scegliere, nel non fare irrinunciabili forme di resistenza e di opposizione esistenziale, prima ancora che politica. L’ homo abulicus poi, conteso tra spleen ed accidia, sospeso tra la tentazione ricorrente e vana di scuotersi dal torpore e la provvidenziale ricaduta nel baratro confortevole del taedium vitae, sopraffatto dalla propria consustanziale neghittosità, si trova in buona compagnia, fratello spirituale di eroi di lunga saggezza e grazia quali Oblomov e Belacqua, protetti dai meandri oscuri che sempre prediligono: quelli della morte, del sogno, dell’ombra, suggerendoci, dal fondo di quella recalcitrante extraterritorialità, che fare significa” vivere senza coscienza dell’imperfezione del vivere”( Manganelli).
( nella foto Beckett/Belacqua a Tangeri)
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