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L'ossessione e la pazzia di una madre riversata sulla vita del proprio figlio. Argomento che se preso e non gestito con le pinze rischia solo di spaccare a metà i consensi e dividere nettamente. Che forse è un po' quello che il regista Saverio Costanzo anziché evitare come la peste nel suo "Hungry Hearts" in realtà cerca e, neanche a dirlo, trova in pieno, utilizzando la madre Mina di Alba Rohrwacher e chi gli gira intorno nel modo peggiore e indesiderabile possibile.
Ma andiamo per gradi.
Come commedia romantica - ed è così che comincia - la pellicola di Costanzo parte piuttosto bene, con un incontro stravagante che pare rubato appositamente dai modelli americani attestati del genere, idoneo a incanalare il rapporto sentimentale dominante sulle onde del vero amore. In realtà si tratta del primo pezzo del puzzle che verrà composto da qui a poco, un puzzle che man mano cambierà colore tendendo al nero, per abbracciare un clima d'orrore che, a conti fatti, la pellicola non è assolutamente in grado di raggiungere. Più che un thriller, o un dramma, "Hungry Hearts" infatti aspira ad aprire le porte a scene e accompagnamenti musicali intenti a voler spaventare o quantomeno a inquietare il pubblico, che dentro di se dovrebbe sapere perfettamente dove si vuole andare a parare. Perché i comportamenti di Jude, il marito di Mina interpretato da Adam Driver, pur essendo coerenti con quelli di chi prende in mano le redini di una situazione preoccupante, sono perennemente soggiogati e strozzati dall'amore che lui prova per la moglie, al punto da lasciare che la corda da lei tirata arrivi al margine di non ritorno. Quello che sinceramente poteva essere evitato in vari frangenti.
Ma pur di concludere furbescamente il suo piano irritante, Costanzo decide di mettere la pazzia di Mina al centro del piedistallo, accarezzandola e alimentandola come male gestibile e transitorio. Forzatura registica con cui il suo lavoro comincia inviare i primi scricchiolii premonitori di un cedimento scritto, constringendoci a restare impotenti e infastiditi dai comportamenti contraddittori di un padre che, pur lamentandosi, vacilla senza agire. E questo non è per niente giustificato da qualche strana coerenza personale dell'uomo - che poi finalmente si muove - ma solamente dalla necessità di ritardare l'inevitabile e permettere alla pellicola di prepararsi al finale ideato con maggiori munizioni a disposizione e maggior posta in palio.
L'atteggiamento ricattatorio con cui Costanzo adatta il libro di Marco Franzoso, "Il Bambino Indaco", perciò è quello di chi ha voglia di tirare il sasso nascondendo la mano, stuzzicando morali altrui, ma non schierandosi mai in prima persona, chiudendo persino la vicenda, dal suo punto di vista, in modo neutrale.
Testimonianza di come, alla fine, poi il suo "Hungry Hearts" abbia più intenzione di essere aspro argomento di discussione, che film intenzionato a voler dire qualcosa.
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