Bob Dylan
L’intervista fu fatta alla fine di un concerto. Era la notte di un sabato di marzo, anno 1966, e Bob Dylan era a Lincoln, nel Nebraska, a bordo del suo aereo privato diretto a Denver. Insieme a lui, l’amico e critico Robert Shelton. Un colloquio di due ore che Shelton in seguito descriverà come un “monologo caleidoscopico”. Un nastro registrato in cui Dylan, che questa settimana compie 70 anni, confessa di essere stato dipendente da eroina.
“Divenni dipendente da eroina a New York, molto, molto dipendente. Dico davvero, per un certo periodo fui davvero dipendente. Mi facevo 25 dollari di eroina al giorno”. Girava voce che Dylan ci fosse caduto, ma il critico del Daily Telegraph Mick Brown dice di non aver mai sentito l’artista ammetterlo: “È straordinario che potesse parlarne così candidamente”, afferma ora.
Nei nastri si sente Dylan dire anche di aver pensato al suicidio. Un pensiero balenato nella sua testa dopo che la gente cominciò a considerarlo un genio. “La morte per me non è nulla – sostiene – la morte per me non significa nulla finché posso morire in fretta. Molte volte sono arrivato al punto di credere di essere capace di morire in maniera rapida. Sarei potuto andare oltre, avrei potuto farlo. Ammetto di aver avuto questa cosa suicida… ma l’ho superata”.
Shelton descrive Dylan come irrequieto e volubile durante l’intervista: ora vivace, ora abbattuto. E per essere un uomo che oggi fa ancora tour e incisioni, Dylan, si dimostra estremamente sprezzante per il proprio lavoro e per ciò che scrive.
(continua su Dagospia)