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L’apertura è affidata all’ultimo pezzo, Asperger, e la gente comincia ad assieparsi sotto al palco. A dire il vero mi aspetto molta più ressa, ma c’è anche da dire che il target è preciso e circoscritto. Sono soprattutto ragazzi e ragazze dai 18 ai 28 anni. Si vede dalle loro facce, si vede dal fatto che conoscono a memoria ogni parola di ogni canzone. Perché?, mi chiedo. Semplicemente perché con le sue canzoni Niccolò ha dato vita ad un affresco generazionale, declinato in dodici grida di sofferenza e di speranza che inevitabilmente non possono piacere a tutti, perché agrodolci, scomode, fin troppo vere. Non a caso il concerto si apre con il brano che tratteggia una generazione malata: quanti ventenni hanno effettivamente già alle spalle anni e anni di cure mediche per problemi di alimentazione, di tiroide, di insonnia, di iperattività, di intestino irritabile, di depressione, di qualunque cosa riesca a rendere impossibile una fetta di vita? E quanti hanno visto ricondurre questi problemi ad una malattia psicosomatica? Molti. Se non tutti. Ma “non si scherza su queste cose”, ammonisce sarcasticamente la voce incazzata di Niccolò. Benché non reputi questa una delle canzoni più riuscite dei Cani, mi rendo conto che la musica sta cominciando a travolgermi. E pensare che l’elettropop non mi ha mai interessato più di tanto. Mi accorgo però che qui sto assistendo a qualcosa di diverso, di nuovo. Sono di fronte ad una musica calata perfettamente nel presente, un misto di generi in perfetto clima postmoderno: pop, elettronica, punk, new wave sono solo alcuni degli ingredienti principali di un mix perfetto di stili che genera qualcosa di nuovo, una sorta di barriera sonora che rinfresca e svecchia questa afosa notte da paese d’estiva bassa padana. E dire che Niccolò è stato bersagliato da più parti da critiche legate alla banalità dello stile. Come se la musica di Lou Reed fosse (quasi) tutta da buttare. Sarà forse l’invidia dei “nati nel settantanove (che) suonano in almeno due o tre gruppi e fanno musica datata” (Velleità)? Le sorprese sonore non si fermano. Il secondo pezzo è la cover di una canzone che, almeno dalle prime parole, non ricordo. Arriva il ritornello e scopro che si tratta di Con un deca degli 883. Che dire? Mai così attuale, e svecchiata come meglio non si potrebbe. In una parola: resuscitata. L’energia cresce, come il numero della gente sotto il palco. Non ci sono inutili commenti tra una canzone e l’altra. Solo un fiume di energia che non si vuole arrestare. Niccolò crede a ciò che canta perché Niccolò è ciò che canta. Non stupisce allora vederlo urlare a squarciagola (il canto è molto migliorato rispetto alle loro prime esibizioni live) frasi che ricordano i nostri recenti trascorsi universitari (“Le bariste che ci provano con me; i fuori sede che ci provano con le bariste (coi soldi dei padri); le consumazioni nella tasca di dietro: dieci euro in cambio di un Long Island gratis”, Door Selection), la paura del mondo del lavoro e l’idea di essere “migliori” a prescindere da ciò che stiamo facendo per aiutare noi stessi a tirare avanti nonostante tutto (“Le velleità ti aiutano a dormire quando i soldi sono troppi o troppo pochi e non sei davvero ricco, né povero davvero, nel posto letto che non paghi per intero”, Velleità), l’infondata invidia per la giovinezza altrui che ne deriva (“Ed io, che sto a guardare e rido, di che rido? Io che di nascosto vivo, io non vivo che nascosto, ed ho un po' più di anni ma non so che cosa invidio”, I pariolini di diciott’anni), le ossessioni esistenziali che non ci abbandoneranno mai (“L'immagine di sé che mette ansia. Le finte ansie”, Hypsteria; “La pretesa che tutto questo avrà un senso, il mattino seguente; le preoccupazioni da non dare a mia madre”, Door Selection). Mi soffermo, infine, sulle parole di Hypsteria, pezzo che chiude il concerto prima del bis. "Andrò a New York a lavorare o a studiare. Dirò ai miei genitori che sto male qui a Roma. Vedrai, vedrai, vedrai" è la pietosa constatazione che, ora più che mai, ogni coraggioso tentativo di dare una sferzata professionale alla nostra vita è destinato ad esaurirsi, risolvendosi in un lavoro da barista o da bancario nel paese che ci ha dato i natali. Ci rimane il mondo degli affetti? Neanche quello, forse. Come i “pariolini di diciott’anni”, quante persone ormai si lanciano in una relazione bastachessia “perché anche se non fosse amore non per questo è da buttare (com'è logico che sia)” (I pariolini di diciott’anni)? Testi, dunque, che con poche pennellate riescono a ricostruire la nostra desolante realtà contemporanea, fatta di “cattivi che non sono cattivi” e “di buoni che non sono buoni davvero”. Sì, “proprio come me e te” rispondo, cantando, a Niccolò (Wes Anderson). Niccolò è bravo, poche balle! Un “falso nerd con gli occhiali da nerd” (Velleità) che con un progetto tanto coraggioso quanto riuscito rischia di mettere in difficoltà un’intera generazione di menestrelli che, nel 2012, stanno ancora aggrappati alla “coperta di Linus” di una musica ormai superata (rock, pop, indie, chiamatelo come volete) e si avvalgono, come se non bastasse, di testi poco coraggiosi e innovativi perché cuciti per il sempre più becero pubblico italiano. Quindi viva I Cani, abbasso il ciarpame rockettaro delle vecchie e nuove generazioni. Sotto quel palco ho finalmente respirato aria fresca. Sotto quel palco ho finalmente ritrovato l’energia, propositiva e intellettuale, della Musica.
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