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I carovanieri

Da Foscasensi @foscasensi
La mia compagna di fatiche... letterarie

La mia compagna di fatiche… letterarie

Notte fra il 5 e 6 settembre 2013 – Non pensavo che i miei trent’anni sarebbero stati così. Da bambina e poco più grande proprio non pensavo che ci sarebbero stati, nel senso che credevo sarei morta prima, come in effetti un poco è stato, ma lo credevo proprio in senso fisico, ossa e sangue. Poi gli anni si sono  stemperati e la morte, sempre  più vicina, è divenuta per una qualche ragione meno presente o meno tangibile, mentre ad essa, alla sua idea, si è sostituto un senso di compiutezza senza attributi: esisterò ancora, avrò un lavoro e dei figli. Avrò forse una casa e ragioni sufficienti per avere stima di me stessa. E l’amore? Sì, anche quello. E il corpo? Usato ma in salute. I miei trent’anni potevano essere tappa di una strada costruita per guardarsi indietro e dire “questo l’ho fatto” e invece sono, al sapore, un appuntamento mancato. Eppure stamani quando il sole mi batteva sulle cosce e c’era rumore come di storni e un vento d’Africa e un’aria di settembre un poco malato, troppo calda e troppo germinosa, mi sono stirata tastandomi tutte le ossa e mi è parso strano essere qui, ancora, e mi sono sentita un po’ sollevata e un po’ in colpa.

***

Osservavo che la mia colazione è diversa rispetto a quella di dieci anni fa. Verso latte di soia e  cereali in una ciotola. Sulla tavola ci sono le tazze di altri che hanno fatto colazione prima di me. Mamellata, carta da cucina, briciole. In questa stanza si potrebbe pregare, penso mentre giro il cucchiaio e un odore vegetale, caldo, si unisce ai cereali. Che male potrebbe fare (o quanto bene?) un leggio per passarsi sulle labbra le Scritture e sentir discorrere di dio con intorno i capi superbi delle phalaenopsis, i viticci della bougainvillea affacciati alla finestra e la tela delle tende in fiamme, abbacinata dal mattino?

7 settembre 2013 – Faccio  cose minime, ripongo le scarpe in  scatole di cartone. Prima però spazzolo il cuoio che manda un odore di vivo e di un’umanità antica, forse perché è fatto coi resti di creature che erano state vive e poi lavorati  e di nuovo lavorati con durezza finché il “tessuto” in senso proprio è divenuto “tessuto” in senso lato, ha sciolto la sua sostanza fisica, la sua presenza grammaticale in qualcosa di diverso e più lente, più struggente e l’uomo, faticando, ha potuto farne ciò che ha voluto.Dicevo che ripongo le mie scapre in scatole di cartone, le fascio in sfoglie di carta asciutte e leggere. Ho aperto le finestre, portato fuori gli asciugamani, lavato vestiti e ogni cosa è così bagnata, il sole inonda così ogni cosa fra le mura della mia casa antica, nella quale ora mi muovo da sola, che  sospetto di essere vittima di una felicità da Vecchio Continente, la felicità dei fiori in vaso, dei mobili di legno, delle cose alle quali, infine senz’armi, si può abbandonare la facoltà di pensare.

Il rapporto con questa casa è iniziato dicissette anni fa. Allora eravamo una strana carovana composta dai miei genitori e due bambini grandicelli, me e mio fratello.  Fu mio padre  a scoprire la casa e deve aver molto pensato prima di portarci a vederla. Non ricordo il tragitto, il percome o il perché di quella prima visita ma dobbiamo esserci mossi su un’Audi degli anni Novanta, dal terzo piano di un appartamento dall’intonaco caccoloso e gli avvolgibili bianchi che allora chiamavamo “casa”, nella periferia profonda di una cittadina di mare nella quale all’epoca pensavo abitassimo come pellegrini senza  patria. Quando scesi dall’auto, comunque, avevo un gran mal di stomaco. E non è che “quest’altra” fosse proprio una casa. Sulla porta qualcuno aveva inchiodato un cartello “vendesi” però non c’era il numero di telefono. Dalle stanze montava un odore dolciastro di calcinacci e intonaco umido. Mio padre, che nel ricordo era giovane e vecchio come posso essere io adesso, scansava coi piedi forse sassi e rifiuti che lasciavano strascichi di polvere e intanto spiegava la struttura della casa che doveva aver studiato in planimetria. C’era nulla che potesse renderla attraente. I soffitti erano intristiti delle mezzane crostose, non un paravento si salvava dalle crepe e il marciume e i pavimenti erano costellati da immondizia così vecchia da essere quasi irriconoscibile. Al terzo piano, in quella che oggi è camera di mio fratello, un buco nel soffitto grande quanto l’entrata di una grotta mandava un sifone d’aria selvaggia. Ci portammo le mani alla fronte, sopraffatti, e mio padre disse: qualcuno vada a togliere quel cartello dalla porta. La carovana aveva fatto tappa.

 

Sto ascoltando Nella fatal di Rimini,
da Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti
Teatro degli Arcimboldi di Milano
con Maffio Orsini interpretato da  Daniela Barcellona


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