Io l’ho visto. Due volte. Lascia perplessi soprattutto se lo si considera alla luce dello strano percorso del regista, della sua audacia.
Innanzitutto la trama: l’agente privato Kline (Hartnett), ex poliziotto, vola ad Hong Kong per mettersi sulle tracce di Shitao, il figlio del presidente della più grande casa farmaceutica del mondo. Durante la ricerca dell’introvabile ragazzo, che si muove come un fantasma per la città lasciando poche tracce, la pista si intreccia alle vicende di Su Dongpo, boss locale spietatissimo, e di Lili, la sua bellissima ragazza eroinomane. La linearità della storia è disturbata da visioni e sogni dell’agente, ossessionato dall’ultimo caso di omicidio della sua carriera di poliziotto, quello che l’ha costretto a mettersi in privato.
Un discorso del genere porterebbe a sospettare che si tratti dell’ennesimo thriller banalmente etichettato come psicologico, ma non è così.
Proviamo ad immaginare la Passione come un thriller. Shitao guarisce dal dolore folle di persone per una sorta di vocazione, e dovrà anche cavarsela con la sua Maria Maddalena prima di finire con le mani inchiodate ad un asse di legno. E’ un “Cristo” immerso nell’universo postmoderno di Hong Kong e accarezzato dalle melodie dei Radiohead. Kline deve trovare nella metropoli questo strano ragazzo per liberarsi dall’incubo del passato, dall’omicida che faceva installazioni con i corpi delle vittime. Un incubo che lo attrae terribilmente però. Probabilmente quel sogno lascerà il posto a nuove visioni.
Con queste premesse è difficile immaginare reazioni univoche perché è il tema stesso che in secoli e secoli di storia non ha dato luogo a compromessi. Su questo punto è sbagliato sbilanciarsi, ma bisognerebbe almeno dare atto della prova di coraggio (o arroganza, a seconda dei punti di vista) del regista. Questioni riguardanti il contenuto a parte, il film merita almeno perché almeno dal punto di vista formale le suggestioni sono tante e mai lasciate al caso.
In molti lo considerano una sorta di “tamarrata” (mi si perdoni il termine ma non è facile trovarne di più adatti), e forse non hanno tutti i torti. Ma nonostante una certa superficialità su alcuni punti, pochi, credo che il film meriti. E’ pur sempre un film fatto un po’ all’americana da chi americano non è, e soprattutto da chi non ha bisogno di voler sembrare americano, ma alla fine ha l’aspetto di un lavoro ben fatto, di una scommessa rischiosissima che tutto sommato sembra vinta.