I contraccettivi gratuiti non prevengono l’aborto, ecco perché

Creato il 18 ottobre 2012 da Uccronline

«Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Renzo Puccetti, medico-chirurgo, specialista in medicina Interna, membro della Research Unit della European Medical Association, referente per l’area bioetica della società medico-scientifica interdisciplinare Promed Galileo e socio fondatore dell’Associazione Scienza & Vita»

di Renzo Puccetti*
*bioeticista e specialista in medicina interna

“Studio mostra che i contraccettivi gratis riducono il tasso di aborto” (New York Times) “Studio mostra che la contraccezione gratis significa meno aborti e gravidanze tra le adolescenti” (Washington Post), “La contraccezione gratis può prevenire gli aborti” (CNN), “Aborti in calo grazie ai contraccettivi gratuiti” (Le Matin), “La contraccezione gratuita aiuta a diminuire gli aborti negli Stati Uniti” (El Mundo), “Studio: la contraccezione gratis porta a meno aborti” (The Guardian), “Usa: con la distribuzione gratuita di anticoncezionali si registrano meno aborti” (Quotidiano Nazionale). Sono solo alcuni dei titoli che le maggiori testate giornalistiche hanno usato per informare il pubblico di uno studio appena pubblicato sulla rivista Obstetrics & Gynecology, organo ufficiale della Federazione Mondiale dei Ginecologi e degli Ostetrici (FIGO).

Senz’altro un bel aiutino per quella riforma sanitaria voluta dal presidente Obama che obbliga tutti i datori di lavoro a pagare ai propri dipendenti i contraccettivi e indirettamente anche gli interventi di aborto e che ha fatto coalizzare la Chiesa Cattolica Americana con gli Evangelici e la galassia protestante conservatrice sui temi etici aggrediti nel fondamentale diritto alla libertà religiosa garantito dalla costituzione americana. Fino a questo momento infatti i presunti benefici che l’amministrazione americana ha promesso grazie alla diffusione gratuita della contraccezione poggiavano su affermazioni altisonanti, ma su evidenze davvero misere. Basta pensare a questo proposito che per conferire un alone di scientificità alle proprie politiche il ministero della salute americano ha commissionato all’Institute of Medicine un rapporto (Clinical Preventive Services for Women: Closing the Gaps) volto ad identificare le misure necessarie a garantire la salute delle donne in cui gli esperti hanno dedicato ampio spazio a suggerire la più ampia espansione possibile dei servizi di cosiddetta salute riproduttiva, alias contraccettivi e aborto. Quando a pagina 105 di quel documento gli esperti hanno sostenuto che la contraccezione riduce il ricorso all’aborto non sono riusciti a fare di meglio che citare due sole voci bibliografiche di cui una non è nemmeno uno studio peer reviewed, ma una semplice brochure di Heather Boonstra, responsabile della promozione nella legge e nei regolamenti federali dell’agenda del Guttmacher Institute, istituto scientifico con strettissimi legami con la Planned Parenthood, la grande organizzazione americana con centinaia di cliniche per aborti in America ed in mezzo mondo.

In quello che doveva essere un contributo scientifico della massima accuratezza, gli esperti dell’Institute of Medicine hanno inspiegabilmente omesso revisioni come quella di Inamura e colleghi pubblicata nel dicembre 2007 sull’European Journal of Public Health, o quella di Douglas Kirby del marzo 2008, nessuna menzione del nostro studio pubblicato nel 2009 sull’Italian Journal of Gynaecology & Obstetrics, silenzio sugli studi del professor David Paton, docente di economia alla Nottingham University Business School, niente sul fallimento delle politiche inglesi, scozzesi, svedesi, francesi che nonostante una diffusione più che capillare della contraccezione hanno raccolto come risultato livelli di abortività tra i più alti in Europa; omesso anche lo studio del professor José Luis Dueñas, primario ginecologo dell’Ospedale Universitario La Virgen Macaren di Siviglia, che sul numero di gennaio 2011 della rivista Contraception ha mostrato il parallelo incremento di contraccezione e aborto in Spagna nel periodo 1997-2007. Niente, nichts, rien, nada, silenzio tombale, solo il refrain radicaloide servito in salsa anglosassone “più pillola, meno aborti”.

Eppure anche nel 2012 si sono accumulate ulteriori evidenze che mostrano un quadro del tutto opposto. Sul numero di febbraio dello Scandinavian Journal of Public Health la ricercatrice del dipartimento di sociologia dell’Università di Stoccolma Veronica Halvarsson ha mostrato che in Svezia per ogni 100 prescrizioni in più di pillola contraccettiva si registra un incremento di 3,3 aborti tra le ragazze di 16 anni. Questo, in estrema sintesi, il desolante panorama scientifico su cui si sono mossi gli artefici di una ideologizzata selezione delle informazioni che hanno salutato come manna lo studio dei ricercatori della Washington University di St. Louis, una pubblicazione che hanno da subito cominciato a brandire come la prova definitiva della bontà delle loro teorie: la contraccezione è il solo modo realmente efficace per contrastare gli aborti. Se le cose stessero davvero così, tutti, a prescindere dalle personali posizioni etiche sulla contraccezione, avrebbero il dovere di prendere atto della realtà, tanto più che questo studio è uscito dal confronto accademico per essere citato sui blogs, i forum di discussione e i social networks. È per questo che ritengo necessario offrire ai lettori qualche informazione aggiuntiva rispetto alla limitatezza di un titolo o nel caso migliore di un breve resoconto dello studio in oggetto.

Gli autori nel periodo compreso tra agosto 2007 e settembre 2011 hanno arruolato 9256 donne di età media pari a 25 anni (il nome attribuito allo studio è stato Contraceptive CHOICE Project). Il 16% di queste era rappresentato da donne arruolate nelle cliniche per abortire, altre erano pazienti dei medici che lavoravano nelle stesse cliniche per aborti. Le donne partecipanti dovevano essere già sessualmente attive o quanto meno prevedere di esserlo entro 6 mesi, non dovevano usare contraccettivi oppure, se li usavano, dovevano essere intenzionate a cambiare il metodo. Al momento in cui venivano contattate per partecipare allo studio le donne ascoltavano un breve scritto che le informava circa l’efficacia e la sicurezza dei metodi contraccettivi a lunga durata d’azione (LARC, Long Acting Reversibile Contraception) e poi, se effettivamente incluse nello studio, venivano sottoposte ad una sessione educativa sulla contraccezione. Il 42% delle donne aveva abortito e per oltre il 50% era formato da donne di colore. Secondo i risultati riportati dai ricercatori quello che era l’end-point primario dello studio, il tasso di aborti ripetuti nell’area di St. Louis dove si è svolto lo studio, si è ridotto di ben poco: dal 48% al 45%, mentre nella limitrofa area di Kansas City il tasso di abortività è aumentato di circa 4 punti percentuali. Più accentata la riduzione del 20,6% registrata nel numero di aborti nell’area di St. Louis rispetto al resto dello Stato del Missouri. Ancora più marcato il divario del tasso di abortività tra le oltre 9000 donne studiate (4,4-7,5 ogni 1000 donne in età fertile) e quello rilevato a livello regionale (13,4-17,0 ogni 1000 donne in età fertile). Questi risultati sono tali da consentire di affermare che la diffusione gratuita dei contraccettivi riducono gli aborti? La risposta obiettiva non può che essere negativa e le ragioni sono molteplici.

Pur non volendo considerare la strana omissione degli autori nel fornire i dati di abortività grezzi e non soltanto quelli aggiustati secondo età e sesso (peraltro con procedura non specificata), volendo inoltre tralasciare che il tasso di abortività nel campione non è stato rilevato in modo oggettivo, ma mediante interviste telefoniche, si deve innanzi tutto sottolineare che il campione studiato non è affatto rappresentativo della popolazione generale: ben il 42% aveva avuto almeno un aborto (un livello triplo rispetto alle coetanee nella popolazione generale) e oltre il 50% delle donne era di colore (la percentuale di donne di colore nello stato del Missouri è invece inferiore al 12%). Nel campione studiato ben il 75% delle donne ha scelto come contraccettivo la spirale, un mezzo cioè il cui meccanismo d’azione non è soltanto contraccettivo, ma anche micro-abortivo (la spirale agisce in parte ostacolando l’annidamento nell’utero materno dell’embrione eventualmente concepito), oppure un impianto sottocutaneo a rilascio prolungato di progestinico. Non stupisce quest’alta preferenza nel campione per i LARC dal momento che già Henshaw in America nel 1984 e Moreau nel 2010 in Francia avevano dimostrato la tendenza delle donne dopo l’aborto a virare spontaneamente verso mezzi di controllo delle nascite connotati da maggiore efficacia. Nel campione esaminato la propensione ad abortire era molto elevata ed era un criterio di ammissione il fatto che queste donne fossero già sessualmente attive o lo diventassero a breve. È quindi esclusa la possibilità che in questo campione si potesse verificare quella compensazione del rischio che gli studi hanno dimostrato essere un meccanismo di primaria importanza per spiegare il fallimento della contraccezione nel ridurre gli aborti tra la popolazione generale. È abbastanza verosimile (ed era già stato dimostrato nel gennaio 2012 dallo studio neozelandese di Rose e Lawton e in agosto da quello scozzese di Cameron, entrambi per l’abortività ripetuta) che in una popolazione così selezionata, caratterizzata dall’attivo esercizio della sessualità e dall’altissima propensione ad abortire, l’introduzione di mezzi (spirali e impianti sottocutanei) ad elevata efficacia e non abbisognevoli di un’assunzione reiterata, possa condurre ad un abbassamento dell’abortività. Ma che cosa succederebbe se la stessa offerta di contraccettivi gratuiti venisse fatta alla popolazione generale? Lì la promozione dei LARC si rivolgerebbe a molte donne, particolarmente le più giovani, sessualmente non attive, ma che secondo il modello comportamentale conosciuto come rational choice model, comincerebbero a trovare conveniente avere una vita sessuale liberata dalla paura della gravidanza, è poi verosimile prevedere che nella popolazione generale, dove i rapporti non sono così regolari come nella popolazione valutata nello studio, un numero assai minore sceglierebbero la contraccezione di lunga durata preferendo ad essa altri mezzi, come la pillola, i cerotti, l’anello vaginale e il preservativo, tutte metodiche caratterizzate da un tasso di fallimenti nettamente superiore.

Non si capisce quindi la ragione per cui gli autori dello studio non abbiano riportato i tassi di abortività del campione studiato suddivisi per il metodo contraccettivo scelto. Che cosa è successo infatti tra le 1686 donne che nello studio hanno scelto una qualche forma di preparato estro-progestinico? Gli autori hanno omesso a questo proposito qualsiasi informazione. Che cosa succederebbe delle donne che invece opterebbero per il condom? Che cosa succederebbe delle molte donne che dietro la promessa che attraverso la contraccezione il sesso può diventare un gioco e che poi si troverebbero a provare sulla propria pelle che non è così? In Francia il 91% delle donne sessualmente attive usa la contraccezione, i due terzi di quelle che abortiscono hanno usato la contraccezione nel mese in cui sono rimaste incinte, in America la percentuale è del 50%, ma un altro 40% ha comunque usato la contraccezione precedentemente, è cioè stato plasmato dalla mentalità contraccettiva. Usare pertanto il campione CHOICE per affermare che fornire gratis la contraccezione porta alla riduzione degli aborti costituisce un esempio assai chiaro di quella fallacia di composizione che gli statistici individuano quando si vuole trasferire automaticamente il dato di un particolare campione all’intera popolazione.

Che dire poi del fatto che gli autori non hanno minimamente accennato al rischio potenziale derivante dalla diffusione dei LARC riguardo le malattie sessualmente trasmesse? Eppure sullo stesso numero di ottobre di Obstetrics & Gynecology un gruppo di lavoro comprendente anche Jeff Peipert, lo stesso ricercatore che ha condotto lo studio CHOICE, ha messo in evidenza che l’utilizzo dei LARC si associa nelle donne HIV negative ad un dimezzamento dell’uso costante del preservativo, confermando precedenti studi riportati nella revisione dell’argomento pubblicata nel 2011 sulla rivista Infectious Diseases in Obstetrics and Gynecology dalla ricercatrice del Center for Disease Control and Prevention di Atlanta, Maria Gallo. È confortante leggere che queste considerazioni sono le stesse con cui Michael J. New, professore all’Università dell’Alabama ed esperto di politiche sanitarie, ha pesantemente criticato la lettura superficiale e ideologica dello studio in questione.

Al termine di questa disamina voglio appena accennare alla mia partecipazione al congresso mondiale di ginecologia che si è appena concluso a Roma, dove ho illustrato e discusso uno studio che conferma la necessità di cautela nel trarre conclusioni definitive da dati parziali. Ai colleghi intervenuti nella sessione dedicata alle tematiche di salute pubblica ho mostrato il lavoro condotto insieme al professor Noia, il dottor Oriente, il professor Natale e la professoressa Di Pietro nel quale si evidenzia come nelle aree degli Stati Uniti dove maggiore è il ricorso ai metodi di contraccezione efficace e reversibile non si registra affatto un minore tasso di aborti, mentre addirittura laddove più elevato è l’impiego del condom, il ricorso all’aborto aumenta in modo statisticamente significativo. Uno studio ecologico come il nostro non è indicativo di un rapporto di causa-effetto, ma è comunque suggestivo circa la necessità di indagini specificamente mirate ad approfondire e svelare la realtà.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :