Il cielo si è calmato e sotto la terra qualcosa si muove, sfrego la testa sul prato cercando una carezza, solo una brezza leggera muove il mio ciuffo post-punk e gli alberi svaligiati dall’estate, tutto il resto ha il mio respiro. Fisso il sole e le mie pupille neppure bruciano, è l’ombra di uno stormo di uccelli a rendere tutto più piacevole, è un volo interminabile che mi travolge, è un immagine che tengo accesa pur chiudendo gli occhi; pochi raggi attraversano le mie palpebre strettissime, pochi raggi cercano di cancellare questa immagine. In quelle figure nere che rompono il silenzio della luce, vedo tante cose, sono corvi. Vedo un quadro piccolissimo che a 13 anni mi ha avvolto e trafitto, tanto colore, tanta forza in pochi centimetri, tanta forza in tantissimi gesti frettolosi; vedo la prima cicca, raccolta da terra e ancora umidiccia, una Philp Morris spenta da chissà chi e lasciata a metà, l’ho accesa con i fiammiferi di mia nonna, l’ho gustata come poche cose al mondo. In quelle figure nere che volano sopra la mia testa e che ancora ho tatuate negli occhi, vedo il piacere di stare solo, quei corvi sono tanti, il loro canto unito è fastidioso, il canto di uno solo di loro può essere piacevole, può diventare una musica bellissima. Mi chiedo che uccello posso sembrare ai bambini che ancora frequentano questo posto, a cosa posso somigliare disteso su questa terra arida e sopra quest’erba secca. Da bambino sarei stato un uccello esotico o un Tucano, non avrei viaggiato come fanno questi animali, forse mi sarei fatto ammirare per la mia bellezza.
Decido di sedermi sulla panchina, forse in questo modo posso sembrare una persona che non spaventa i bambini e i vecchi; lascio la testa indietro e stiro le gambe, un bel brivido percorre la mia schiena, sono sereno. Credo che alla fine in quel quadro visto a tredici anni erano troppi i corvi, non avrei mai disegnato un quadro del genere, avrei costruito una trombetta verde come mi ha insegnato mio nonno e mi sarei messo a starnazzare in mezzo alle spighe non ancora mature, forse a tredici anni sarebbero arrivati chissà quali uccelli dall’oriente, avrei conosciuto qualche tucano e parlato con grossi pappagalli verdi, forse non me ne sarei mai andato da quel campo di grano; e poi un campo di grano, a tredici anni me lo sarei immaginato più colorato, ci avrei trovato qualche papavero, non poche volte si possono trovare, l’avrei proprio colorata quell’enorme distesa gialla.
Anche questa panchina dopo un po’ diventa scomoda, forse ho riacquisito tutti i sensi e la vita ha ripreso la sua dimensione reale, gli alberi sono estivi, il prato è verde e le altalene vanno su e giù come sempre, cigolano. Mentre vado verso l’uscita, vedo gli sguardi dei bambini che seguono i miei passi, continuano a guardarmi attraverso la rete dove non cresce ancora l’edera, non riescono a guardare altro. Loro mi disegnerebbero come un enorme corvo nero.