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I cristiani in Siria: intervista a Padre Dall’Oglio

Creato il 22 gennaio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
I cristiani in Siria: intervista a Padre Dall’Oglio

La Siria, dall’esplosione della crisi interna nel 2011, è un paese diviso. Questa divisione la si ritrova persino nei religiosi, e in particolare nella comunità cristiana. Alcuni mesi fa abbiamo intervistato Madre Agnes-Mariam de la Croix, superiora del Monastero di Deir Mar Yocoub, la quale ha espresso una visione critica verso larappresentazione occidentale della guerra civile siriana e della ribellione armata (clicca qui). Diversa è invece la posizione di Padre Paolo Dall’Oglio, di cui pubblichiamo un’intervista realizzata da Nicolò Perazzo e già apparsa in lingua spagnola sul sito del Instituto Español de Estudios Estratégicos (IEEE) (clicca).

 
La situazione siriana dopo quasi due anni dall’inizio della rivoluzione convertitasi in guerra civile, non tende a migliorare e i numeri sono catastrofici. Gli sforzi della Comunità Internazionale non sono serviti a evitare il massacro e lo stallo creatosi negli ultimi mesi, situazione molto gradita da alcuni, ha contribuito al deterioramento del paese incrementando le vittime che fino ad oggi sono innumerevoli (più di 37 mila persone morte dall’inizio del conflitto) e spingendone altre a migrare verso i paesi circostanti1.

Il Libano è diventato il terzo paese nella regione ad accogliere più di 100mila rifugiati siriani (incluse le persone in attesa di registrazione). Negli ultimi giorni, secondo l’UNHCR, il numero era di 101.283 persone.
Turchia e Giordania hanno già oltrepassato tale cifra, mentre il dato complessivo a livello regionale è di oltre 358mila rifugiati. In Turchia al 17 ottobre la popolazione di rifugiati registrati in 14 campi gestiti dal governo in 7 provincie del paese era composta da 101.834 persone. Secondo le stime, poi, vi sarebbero 70mila persone che vivono fuori dai campi. In Giordania i siriani registrati come rifugiati o in attesa di registrazione sono 105.737, mentre in Iraq i rifugiati siriani sono 42.661, dei quali 34.446 nella regione del Kurdistan2.

Questi numeri sono impressionanti e la situazione è davvero critica in un paese ormai nel baratro. Per capirne di più, il padre gesuita Paolo Dall’Oglio, che dall’inizio della rivoluzione siriana vede contrapporsi forze governative e rivoltosi, non smette di promuovere la non violenza e l’incontro fra le culture; uno dei protagonisti nella rivolta siriana ci spiega la situazione nel paese. Paolo Dall’Oglio è un gesuita italiano nato a Roma il 17 novembre 1954 e noto al mondo per essere stato negli anni ’80 il rifondatore del monastero cattolico siriaco Deir Mar Musa al-Habashi, nel deserto a nord di Damasco, in cui vi sono accolti anche aderenti alla confessione ortodossa. Da oltre trent’anni è instancabile promotore del dialogo interreligioso con il mondo musulmano e della riconciliazione.

Entrato nella Compagnia di Gesù nel 1975, Paolo Dall’Oglio ha praticato il noviziato in Italia, prima di intraprendere gli studi universitari e il suo lungo cammino che lo porterà fino alla Siria. Nel 1982 scopre i ruderi del monastero cattolico siriaco Deir Mar Musa al-Habashi, costruito nell’XI secolo attorno a un antico romitorio occupato nel VI secolo da San Mosè l’Etiope, e vi s’insedia per un ritiro spirituale dal mondo in un posto di grande solitudine religiosa. Nel 1984, Dall’Oglio è ordinato sacerdote del rito siriaco cattolico e decide di ricostruire le mura del monastero, mentre nel 1992 vi fonda una comunità spirituale ecumenica mista, la comunità al-Khalil (“l’amico di Dio”, in lingua araba, con cui s’indica per antonomasia il patriarca Abramo), che promuove il dialogo islamico-cristiano, luogo d’incontri da due culture e due religioni.
 
Nel 2011 ha scritto un testo nel quale proponeva una soluzione pacifica ai problemi posti dalle sommosse popolari scoppiate in Siria, indicando la strada di una transizione politica verso un’architettura istituzionale democratica, basata sul consenso delle diverse componenti e sensibilità sociali e religiose che coabitano in Siria. Ne è seguita la reazione del regime che ha decretato l’espulsione di Padre Dall’Oglio dalla Siria. A dicembre 2011, Paolo Dall’Oglio non aveva ancora abbandonato il paese e osservato l’ordinanza, continuando a risiedere in Siria, pero a seguito di una lettera aperta spedita all’inviato speciale in Siria delle Nazioni Unite, Kofi Annan3, il 12 giugno 2012 Dall’Oglio venne espulso definitivamente dal paese e dovette lasciare la Siria.

Padre dall’Oglio, com’è la situazione in Siria?

Le strade delle città sono vuote e la gente è chiusa in casa, che sia schierata per il governo o per gli oppositori. La situazione è estrema e l’escalation della violenza è sempre più alta. Mi auguro un miracolo politico, un nuovo equilibrio nazionale che porti a una democrazia vera e partecipata. Purtroppo oggi sono ancora tutti divisi: da una parte c’è chi non vuole più l’attuale regime, soprattutto giovani, che chiedono più libertà e dall’altra c’è chi non vuole il cambiamento, perché è sicuro che il dopo sarà peggio o perché ragiona con logiche patriottiche, contro il complotto internazionale. Ultimamente si fa troppa confusione nel capire chi sono i buoni e chi sono i cattivi e questo è assurdo vista la situazione. Quarant’anni di dittatura definiscono il regime come responsabile sul piano morale. Il processo necessario verso la democrazia non è mai avvenuto mentre la società civile cresceva ed emergeva un bisogno di modernità, emancipazione, democrazia, libertà, rispetto dei diritti sempre bloccato dalla logica mafiosa del regime.

La comunità internazionale ha fatto poco per fermare il massacro secondo Lei? Anche la missione di Brahimi inviato speciale dell’Onu che ha sostituito Kofi Annan ha poche speranze?

L’occidente non ha saputo cogliere l’occasione avanzando insieme al popolo e i giovani siriani. Con questa deriva si va verso un nuovo Afghanistan e lo dico con dolore e solidarietà. La Comunità internazionale non è riuscita ad avere un impatto risolutivo e anche sull’operato dell’inviato speciale dell’Onu Lakhdar Brahimi ci sono forti perplessità poiché non ci sono punti di mediazione tra la rivoluzione e il regime. I siriani non vogliono tornare indietro e l’unica via negoziabile è quella della fine del regime.

Dopo trent’anni d’impegno nel paese siriano per promuovere il dialogo interreligioso, il governo l’ha espulsa dal paese: come ha inizio la vicenda?

Nel momento in cui negli ultimi dieci anni è aumentato il mio impegno nel dialogo islamo-cristiano, nella maturazione di una società civile disponibile a una mutazione democratica e ad un lavoro sostenibile di cultura democratica, il governo andava nel senso della repressione. Dal 2010 c’erano state delle avvisaglie, come la chiusura del parco storico del monastero e di tutte le attività culturali, però + da quel momento che si è andati verso la repressione. La mia residenza è stata bloccata e non mi sono più potuto muovere. Già a primavera appena iniziata, nel marzo 2011, la mia residenza era stata bloccata, poi avendo lavorato per la riconciliazione, la condanna della violenza e la richiesta di democrazia le cose sono andate peggio e a novembre è stata chiesta la mia espulsione. Nel dicembre 2011 c‘era già stato un progetto di espulsione che era stato congelato per qualche mese, grazie anche alla reazione della società civile, ma poi applicato mesi dopo.

Nel comunicato che giustifica la sua espulsione, si toccano vari punti. La più eclatante, l’accusa di favorire terrorismo, di essere amico di Al-Qaeda.

Io sono stato in una delle città accerchiate e in mano alla rivoluzione, ho dato il sangue ai feriti, ho cercato di liberare dei prigionieri, dei rapiti e questo mi ha messo in contatto con la resistenza armata, ma è normale: se vuoi andare a cercare un rapito devi andare a cercare chi l’ha rapito. In seguito poi si è detto che Padre Paolo è connesso con il terrorismo, ma per il governo è tutto terrorismo la rivoluzione. Si dimostra la paranoia di un regime alla deriva e il suo scollamento dalla realtà. La dichiarazione paradossalmente riconosce il ruolo positivo che ho svolto, quando dice che nei trent’anni trascorsi nel Paese sono stato testimone di tutti i successi raggiunti dalla Siria nell’ambito politico, economico e sociale. Però ora siccome sono solidale con i giovani che chiedono la democrazia e vengono imprigionati, torturati o massacrati, divento un agente terrorista.

Inoltre nel comunicato del ministero degli Esteri di Damasco sono riportati altri due passaggi interessanti, dove si afferma che lei sarebbe un sostenitore della no fly zone e che sarebbe stato allontanato dalle autorità ecclesiastiche per questa presa di posizione.
 
Riguardo il primo punto ho sempre messo in guardia sul fatto che una no fly zone senza caschi blu sul territorio rischierebbe di fare aumentare i massacri, creando una situazione di anarchia generalizzata. Nel frattempo il popolo siriano è condannato a morte dall’indifferenza internazionale, bombardato dal cielo e dai carri armati. La Russia non vuole la soluzione giusta, cioè la no fly zone e le forze sul terreno a protezione dei civili. Riguardo l’allontanamento dalle autorità ecclesiastiche, secondo il regime è il vescovo che mi ha cacciato. La Chiesa starebbe con il regime e si è accorta che Padre Paolo è un traditore. C’è una pressione sistematica sui leader religiosi affinché rimangano con il regime fino in fondo. Al-Asad ha la necessità di mantenere compatta l’alleanza delle minoranze contro la rivoluzione siriana e secondo il regime queste minoranze devono vivere nella convinzione che di fronte a loro non c’è altro che terrorismo islamico.

A rivolta già in corso, il presidente Bashar Al-Asad ha cercato di calmare gli animi, per evitare l’ondata di violenza che iniziava a diffondersi nel paese, facendo passi indietro e riconoscendo i propri errori nella gestione della crisi. Inoltre ha compiuto passi importanti, quali il referendum costituzionale, dall’esito positivo, che doveva aprire la porta al multipartitismo con il conseguente cambio della costituzione e le annunciate elezioni legislative. Ma non sono stati sufficienti per frenare le violenze e calmare gli animi. Questo cambiamento, se di cambiamento possiamo parlare, è arrivato troppo tardi? Negli anni precedenti non si era aiutato il governo attraverso il dialogo islamo-cristiano, anche con la scrittura di libri in lingua araba per aiutare il governo a intraprendere una strada democratica?

Si è trattato di cambiamenti di facciata, un trucco del regime che non corrisponde a nessun cambiamento sostanziale, sul piano del vero regime che è la mafia di famiglia. Le occasioni in 10 anni c’erano state per il cambiamento. Eravamo fuori tempo massimo. Poi direi che la discriminante è pretendere che i siriani all’estero non avessero niente da dire: uomini e donne in esilio, perche non dovrebbero aver niente da dire? Se si fa la democrazia devono poter partecipare. Si era lavorato, certo, la società e anche il governo. Durante gli anni c’è stato anche un lavoro per aiutare il regime ad aprirsi alla democrazia con l’aiuto islamo-cristiano, compresi libri scritti in arabo.

Proprio per essere arrivati fuori tempo massimo, la Siria ormai si è trasformata in un ring, teatro di conflitti altrui?

La Siria è il “ring” del mondo, dei conflitti regionali e globali, dove troviamo Iran, Arabia Saudita, il mondo occidentale, la guerra fredda tra Russia e America oltre ad Israele che, guardando i suoi nemici sciiti in guerra e indebolirsi, non è dispiaciuto per niente. Il conflitto russo-americano ci riguarda davvero poco, pero quello sunno-sciita è anche interno alla società siriana, come è anche interno alla società libanese e interno a quella irachena. Tutto lo spazio locale ne risente e soffre di questa problematica. L’alleanza totale di Damasco con Teheran non facilita le cose, nel momento in cui tutte le mattine dobbiamo informarci se hanno bombardato Teheran o no. Il problema è molto complesso per il “tira e molla” che c’è in Siria con l’Iran; e siccome l’America non vuol arrivare alla scelta finale nei confronti dell’Iran c’è un tira e molla siriano giocato da tutti i partner e del quale ne fanno le spese i siriani.

E ora, dopo le elezioni statunitensi, che impatto può avere la rielezione di Obama sulla situazione siriana?

Obama si può togliere qualche sassolino dalla scarpa perche Netanyahu l’ha tradito, schierandosi con Romney, e quindi può darsi che ci siano gli elementi perche l’amministrazione americana su questo punto, sulla Siria, non sia più interessata a soddisfare al 100 per 100 i piani geo-strategici di Israele.

Quindi può cambiare qualcosa?

Adesso secondo me non ci sono le condizioni per un cambiamento rapido; poi se si presenterà quest’occasione, dovremo stare a vedere.

Questa fase di stallo ha fatto e fa comodo a molti in questo periodo, ma non ha aiutato il popolo siriano; anzi ha contribuito alle distruzioni?

Questa fase di stallo non può fare comodo a nessuno, fa comodo solo ai folli e ai pusillanimi, e ovviamente a chi ci guadagna soldi per un motivo o per un altro; ma come si fa a guadagnare sullo spappolamento di una società cosi evoluta culturalmente e socialmente come quella siriana? Com’è possibile immaginare che ci si guadagni qualcosa? Qui si perde tutti perché si aumenta lo spazio culturale dei peggiori estremismi, estremismi più disperati. Si polarizza la società, si va verso la divisione della Siria, che non significa stabilità perché la società internazionale non accetta che si balcanizzi il Medio Oriente. Bisogna evitare voragini d’irrisolvibilità.

Qual è il ruolo della Turchia in questo scenario?

La Turchia ha dei grandi interessi, anche se paralizzata dalla politica abile di Al-Asad che grazie alla riattivazione dell’indipendentismo curdo del partito PKK blocca le azioni turche. I curdi sono stati incaricati dallo stesso rais di realizzare già nel paese siriano l’autonomia curda e da li iniziare a disturbare i turchi spaventandoli. Inoltre sono bloccati dalla paralisi della Nato e dal non voler fare la guerra con l’Iran. Ovviamente prima devono pensare alla salvaguardia nazionale del paese, che a quella siriana.

Una possibile “balcanizzazione”, come molti prevedono, non sarebbe una soluzione al problema ma un nuovo grande problema?

Certo perché poi si ripercuoterebbe immediatamente sul Libano e sull’Iraq, con tendenza ad allargarsi sulla Turchia curda e sull’Iran, senza tener conto di Kuwait, Bahrein e via dicendo.

Cosa ne pensa della dialettica interna dell’opposizione? Secondo lei è realmente auspicabile una vittoria dell’opposizione per il futuro?

L’opposizione sta già vincendo, però con una tale lentezza che è come se perdesse. La divisione è una divisione sui modelli: i Fratelli Musulmani vorrebbero una Siria uguale all’Egitto, dove comandano loro e tutti gli altri obbediscono. Vedremo poi alla fine se l’elettorato li premierà o no. Poi ci sono tante realtà di opposizione che costituiscono una galassia variegata incapace di organizzarsi e insufficientemente preparata. C’è un problema di rappresentanza dell’opposizione. Il grosso problema è quello del modello: io favorisco il modello di democrazia parlamentare, consensuale e addirittura federale. Alcuni sognano una Siria nasseriana stile anni ’50, una Siria nazionalista, nazionalismo arabo secolare che però non esiste più, perché i soggetti politici islamisti sono oggi incancellabili.

All’interno dell’opposizione, dopo 20 mesi, non si è ancora riusciti a trovare una direzione unica per poter opporsi al regime, e il problema degli islamisti che nel caos si sono radicati all’interno del paese è sempre più grande.

Sì certo, i gruppi islamisti si sono radicati perché i partner internazionali hanno abbandonato la Siria al suo destino. È li che hanno creato lo spazio della radicalizzazione. Adesso quali intenzioni abbiamo? Si è abbandonato perché si è avuto paura e la paura è cattiva consigliera. C’è stata la crisi dell’euro, poi le elezioni statunitensi: insomma ci sono tutti questi elementi che hanno fatto sì che si abbandonassero i siriani sul fronte della rivoluzione e si è favorita la deriva estremista. Ma con questo non si può dire che gli estremisti abbiano in mano la rivoluzione, perché non è vero. Sicuramente visto che non c’è la polizia ognuno fa come gli pare: non c’è un’autorità super partes che dice chi ha il diritto di fare la rivoluzione e chi no. Quindi ciascuno fa a modo suo. Ci sono stati parecchi scontri, dove l’Esercito Libero si è dovuto scontrare con gruppi di estremisti.

Per il futuro del paese siriano, come si potrà estirpare il problema?

Una volta che la rivoluzione sarà vinta è chiaro che a comandare sarà la maggior parte della popolazione, e la popolazione siriana non è estremista. Ci saranno dei villaggi, dei settori sul territorio che sono predisposti ad un attitudine, un’interpretazione radicale dell’Islam. I conti vanno fatti con i soggetti politici reali sul territorio, quindi bisogna lavorare a una democrazia consensuale dove si rispettano le specificità locali, culturali, religiose, etniche, linguistiche e poi naturalmente si fanno anche le scelte nazionali che avranno un loro impatto. Se poi ci fosse un governatorato, una parte della Siria dove volessero applicare strettamente le regole musulmane, se è una scelta libera dei cittadini non c’è problema. L’importante è che sia una vera scelta libera dei cittadini. La trasparenza democratica è la vera priorità. Anche in nazioni occidentali in alcuni settori la trasparenza democratica è una chimera. I rischi sono in tutto il Mediterraneo, sono globali e bisogna lavorare su questo. Non si è bravi a fare previsioni pessimiste. Un bravo giornalista non fa previsioni pessimiste. Un bravo giornalista fa delle analisi corrette dando delle opzioni: poi si può scegliere di andare in una direzione o nell’altra. Io come giornalista però ti devo mettere in condizione di fare delle scelte, e io vorrei che si facessero delle scelte verso la trasparenza democratica, verso l’armonia internazionale, intercomunitaria, interculturale perché vedo lì la salvezza della nostra società globale. Poi se si vuole organizzare la guerra mondiale contro il terrorismo, di fatto si crea lo spazio al terrorismo, culturalmente ancora prima che geo-strategicamente.

I cristiani si trovano in una situazione davvero difficile. Quale sarà il loro futuro? Analizzando le fonti possiamo vedere come all’interno della comunità cristiana ci siano pareri discordanti e i capi spirituali siano divisi: talvolta accusano l’opposizione di essere sanguinaria e si schierano dalla parte del regime. Come vede questa mancanza di uniformità tra i cristiani?

Alcuni rappresentanti all’interno della comunità cristiana siriana si sono sempre comportati come agenti del regime manipolando ad arte le parole chiave della sensibilità cristiana come riconciliazione, perdono, maggioranza silenziosa eccetera provocando degli slittamenti in favore del regime in settori della società occidentale; è molto grave perche questo poi dà l’alibi culturale all’omissione occidentale. E il ruolo di questi personaggi rappresentanti delle chiese locali è stato un ruolo molto preciso.

Le fonti riportano anche che i cristiani si sono armati e si stanno difendendo. Queste affermazioni trovano conferme?

Si tratta di cristiani armati alleati del regime nelle valli a ovest del fiume Oronte. Si è tentato di armare i cristiani di Aleppo e Damasco; c’è in generale un rifiuto da parte loro, con la sola eccezione appunto della zona a occidente della montagna alawita. Si parla anche della creazione di gruppi armati cristiani nell’Esercito Siriano Libero. Si tratta di piccoli gruppi e io ho preso posizione a sfavore di questa iniziativa. Se ci sono dei giovani cristiani che si sentono in dovere di partecipare alla guerra di liberazione, lo possono fare direttamente nell’Esercito Siriano Libero nel quale ci sono cittadini siriani di tutte le religioni. Mi sembra invece una follia creare dei gruppi cristiani armati, che si fronteggino da un lato e dall’altro dello schieramento. Poi è giusto ricordare che la maggior parte dei cristiani ormai se n’è andata, e io lo annunciai più di un anno e mezzo fa, all’inizio del processo, dicendo che se la diplomazia internazionale non operava immediatamente per un rapido e incruento mutamento della situazione in Siria, i cristiani se ne sarebbero andati. Ora non si può piangere sul latte versato.

Quindi possiamo dire che c’è stata un’irachizzazione dei cristiani?

Certo, c’è stata per forza una irachizzazione perché, con una condizione oggettiva di guerra civile, i cristiani che sono un anello debole della catena si sono trovati espulsi, proprio buttati fuori dal gioco. Oppure integrati, ma quelli integrati alla rivoluzione sono pochi, soprattutto all’estero. Comunque pochi ma molto significativi culturalmente: abbiamo dei giovani cristiani magnifici che si sono fatti mettere in prigione e torturare perche volevano la democrazia. Questi però bisogna saperli ascoltare. Poi questi giovani sono dovuti andare all’estero perché non possono andare a fare la guerriglia in zone dove non hanno nessuna base civile, base culturale, perché non c’è la guerriglia in zone cristiane del paese.

La zona più colpita a livello cristiano possiamo dire che è stata proprio la città di Homs?

Adesso non si può più dire che sia Homs perche anche ad Aleppo stanno andando via in tanti.

Secondo le notizie che riportano le fonti, la comunità cristiana in buona parte sostiene di “preferire” la situazione attuale, poiché un futuro in un paese dominato dalla sharia e dall’Islam li spaventa. Cosa ne pensa?

Il futuro temuto è già presente. Quindi non c’è più niente da temere dal futuro perché peggio di cosi non si può. La divisione sul territorio è già fatta: come dicevo prima i cristiani che si trovano a ovest dell’Oronte sono integrati alle milizie anti-rivoluzionarie del clan alawita, e quindi lavoreranno con gli alawiti alla divisione del paese. Gruppi che si sono trovati intrappolati tra i curdi è chiaro che fanno di tutto per andarsene, fatta eccezione per il gruppo del partito siriaco-assiro, un partito rivoluzionario. Però questi gruppi non sanno dove mettersi perché i curdi che sono sul territorio ed hanno le armi sono favorevoli a Bashar Al-Asad. Quindi anche qua i cristiani dove si dovrebbero schierare? Con i rivoluzionari sunniti? Con i curdi collaborazionisti? Sono intrappolati e quindi cercano di andare via.

Quindi secondo lei Islam e democrazia possono andare d’accordo?

Il mio motto è “più democrazia, più Islam”. Ovviamente se l’obiettivo è lo Stato secolare, allora bisogna reprimere l’Islam anti-democraticamente. Le popolazioni arabe islamiche hanno un senso religioso radicato e diffuso. Intendo con religione un sentimento, un modo di sentire la vita, che non può essere ricondotto sotto una bandiera, o un nome.

Qual è la posizione del Papa?

La delegazione pontificia non è più andata a Damasco per ragioni di sicurezza e di opportunità politica; quindi c’è stata una rettifica della linea del Vaticano, con l’obiettivo di una maggiore imparzialità e solidarietà con i siriani sofferenti sia dentro il paese sia al di fuori della Siria. Il Papa ha mandato il Cardinale Sarah di “Cor Unum”, quindi l’elemosiniere, con un milione di dollari per le organizzazioni umanitarie affinché li distribuissero ai siriani che hanno bisogno sia dentro che fuori dal paese. Questo gesto saggio del Papa potrebbe facilitare la raccolta di qualche briciola della cristianità siriana.

Il presidente siriano, recentemente, in un’intervista alla tv russa ha detto: “Un intervento straniero nel mio paese causerebbe un effetto domino sul mondo”. Non sono un burattino costruito dall’Occidente: sono siriano e devo vivere e morire in Siria”. Inoltre nell’ultima intervista rilasciata a Russia Today il presidente siriano ha detto che “solo le urne” possono decidere l’avvenire del presidente. Cosa ne pensa?

Questo è un “Viva la Muerte”. Può darsi che lui la pensi davvero cosi. E’ doloroso. Significa che vive in una bolla psico-ideologica intrappolato in una monade.

Secondo lei la situazione dei profughi andrebbe gestita meglio? In questi campi di accoglienza le testimonianze dei profughi che preferiscono tornare in Siria, dove c’è la guerra, piuttosto che rimanere nelle tendopoli sono molte.

E’ normale poiché né la Giordania né la Turchia vogliono mezzo milione di siriani, tanto meno il Libano che ha già mezzo milione di palestinesi e non vuole aggiungere mezzo milione di siriani. Quindi bisogna trattarli abbastanza male affinché decidano di ritornare dentro i confini del loro paese come male minore. Il ragionamento che questi paesi fanno è ovvio: se mettono a disposizione un 5 stelle vengono tutti.


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