Le donne, ci illumina Laura Boldrini, sono il cinquanta per cento della popolazione. Siccome per riprodurci è necessario che vi sia una popolazione numericamente equilibrata fra membri maschi e femmine, l’argomentazione non fa una grinza. Però sorvola sul fatto che l’essere di un genere o di un altro non costituisce una categoria politica. Abbiamo ottenuto la piena cittadinanza con il suffragio universale, ora, volendo trasformare la persona-donna in una categoria, e tutto si può volere, anche le più macroscopiche sciocchezze, una legge siffatta inventa diritti e crea nuove discriminazioni! C’è una componente del paese che si sta promuovendo come “categoria”, gli omosessuali, pertanto si istituisce il loro diritto di chiedere un’adeguata rappresentanza numerica. E che dire della appartenenze etniche? I nuovi italiani di origine straniera che rivendicano la piena integrazione diventano anch’essi una categoria e dovrebbero avere un posto assicurato fra i capolista. E le categorie professionali, quelle sì già ben delineate, devono restare escluse da un parlamento che, con tale legge, potrebbe via via diventare l’edizione riveduta e ampliata della Camera dei Fasci?
La campagna per le quote rosa, come tante altre,
è parte della nuova era dei
diritti foglia di fico che
sostituisce alle restrizioni esterne
le proprie compulsioni interne.
Non so da dove abbia origine la certezza che le donne del nostro paese considerino una priorità e un vantaggio avere la metà dei posti di capolista assicurati, o il quaranta percento strappato nel mercanteggiamento di Renzi e Berlusconi. A naso, direi che chiederebbero, e subito, una buona assistenza sanitaria, delle previdenze per la cura dei famigliari anziani o portatori di handicap, tanti begli asili e scuole a tempo pieno …..
Marianna Madia
Ma chi dà voce alle cittadine italiane?
Una ministra che entra in carica al termine della gravidanza?
O le parlamentari che allattano durante le sedute alla Camera?
Accettare di identificarsi come “categoria politica” significa negarsi la propria specificità come persone femminili e considerare quelle funzioni che ai maschi sono negate come un imbarazzante accessorio, cui non si permette di intralciare la carriera. Significa ignoranza delle più banali osservazioni psicologiche e personale sordità all’ istinto naturale.
Nel periodo fetale e nei primi tre anni di vita del bambino tra la madre e il figlio intercorre una comunicazione, non razionale ma emotiva, che formerà la struttura portante della psiche. Fa parte dei doveri materni offrire – per quei tre anni - la piena disponibilità emotiva sapendo che in quelle fasi, l’orale e l’inizio di quella anale, il bambino fa le esperienze che devono renderlo un adulto sicuro del proprio diritto di esistere, capace di autodeterminarsi, di non dipendere dall’ambiente, di sentirsi soggetto di diritti. Oppure queste esperienze non le fa … e la migliore delle educazioni a seguire poggerà sulle sabbie mobili. Ma la perdita non è solo del bambino, lo è anche per la madre. La donna perde l’intima serenità di ricreare se stessa insieme a “quel” figlio, perché ogni gravidanza e cura del bambino sono diverse. Lo comprende bene la donna che resta in contatto con le sue emozioni e i suoi istinti.
Tre anni. Non è richiesto di assentarsi dalla vita pubblica per sempre. E’ richiesto solo di fare una pausa nella corsa dell’ambizione, magari per aver tempo di parlare con le “cittadine normali”, quelle che, con il pancione, rincorrono l’autobus perché non possono arrivare tardi al lavoro, forse mal pagato o precario se non addirittura in nero, e nessuno porta loro la borsa. O quelle che lasciano il bambino all’asilo, in ansia perché ha tossito tutta la notte e con il rimpianto che altre si prenderanno cura di lui e alla sera, dopo aver fatto la spesa, sarà troppo stanca per fargli tutte le coccole che entrambi desiderano.