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Nel descrivere l’esistenza delle persone all’interno delle metropoli (e non importa, a quanto pare, di che città si tratti), il cinema di Tsai Ming-liang diventa un luogo che non è più luogo certo, concreto, bensì si astrae attraverso un modellarsi da sé che lo rende unico, immediatamente riconoscibile in quei frammenti che contengono parti di un inquietante intero. Ma sebbene le sue opere siano immerse in una dimensione che, giustappunto, non pare collocabile in un orizzonte cognitivo preciso, esse sono in grado di attualizzare, di portare su, sopra, temi di scottante temporaneità, argomenti tangibili sull’autobus che prendiamo al mattino, nel tg della sera, sotto le coperte prima di addormentarci.
Come già detto e come ho potuto provare sulla mia pelle, l’alfabeto di Tsai sfida la comprensibilità comune. Perciò, prendendo ad esempio questo splendente Hey yan quan (2006) che con-tiene molto se non tutto il pensiero del regista, ho scritto un piccolo dizionario tsaiano che faccia da guida durante la visione dei suoi film, anche se comunque, vista la complessità a cui si va incontro, non servirà a molto.
A come acqua
Dopo la siccità de Il gusto dell’anguria (2004) tutta l’acqua è confluita in un’enorme pozza dentro un edificio abbandonato. Un lago che è specchio delle macerie che gli stanno intorno, profondo, silenzioso, inghiotte la cattiva padrona del locale e sorregge, ma chissà per quanto, i tre innamorati sul materasso in un equilibro anti-fisico ma pro-umano.
B come Bangladesh
È il paese da cui viene Rawang. In passato Tsai ha “permesso” ad attori di altre nazionalità di penetrare nelle strette maglie da lui cucite (anche in futuro, la Casta e la Ardant in Face, 2009). Tuttavia mai come per Rawang tale incursione si colora di una luce abbastanza positiva, caritatevole, e assume i contorni della speranza il fatto che un aiuto così arrivi da uno dei paesi più poveri del mondo.
C come cura
Il prendersi cura è il leit motiv del film. Non si tratta di curare una patologia, bensì di uno stare vicino a, di venire incontro, di condurre, in una significazione che può trovare il suo corrispettivo nella parola latina sorge che contiene un riferimento all’angoscia e uno alla protezione. In un ottica heideggeriana si potrebbe dire che Rawang e la cameriera prendendosi cura degli altri non sono però riusciti a farlo di se stessi. Lui è accecato dall’amore, lei non fa nulla per evitare l’umiliazione del ragazzo paralizzato.
D come doppio
Lee Kang-sheng ricopre due ruoli nella pellicola (è un barbone e un uomo-vegetale allo stesso tempo) caratterizzati da un accentramento di amore nei loro confronti. Le due figure sono la biforcazione dell’attore nella filmografia di Tsai. Da una parte c’è il Kang-sheng vincitore, sebbene non sia mai una vera vittoria, di The Hole (1998), e dall’altra quello sconfitto de Il fiume (1997). Due facce di una triste medaglia che qui si esplicita nell’immagine finale con l’Hsiao in mezzo ai due amanti contrapposto all’Hsiao immobile che piange nel suo letto.
E come eterosessualità
Che si accompagna all’amore, il quale spesso e volentieri non riesce a sopraffare il dolore (della solitudine e di molto altro) né a lenire le debolezze dell’uomo. È piuttosto vissuto come un raptus, un momento isterico e frenetico, vissuto sì, ma non con pienezza. A volte è un continuo rincorrersi senza trovarsi (Goodbye, Dragon Inn, 2003), altre volte come qui, è un incontro fugace, arido (Hsiao nel retrobottega con la padrona) oppure in bilico come tre persone su un materasso che galleggia.
F come fumo
Il fumo che di soppiatto arriva come una piaga ad affliggere gli abitanti di Kuala Lumpur sembra un segnale di apocalisse. Reso splendidamente dalla mano di Tsai, la foschia che obbliga i personaggi a indossare le mascherine allontana e disperde ancora di più la vita di questi esseri. Umani?
G come giacere
È un desiderio più che un bisogno. I personaggi di questo film, ed anche degli altri, vogliono sentirsi vicini. Gli spettatori del Dragon Inn che temporeggiano nei cessi a muro come l’innamorato di Che ora è laggiù? (2002) che tenta di ridurre le distanze sincronizzando l’ora di Taipei con quella di Parigi, sono due perle incastonate nella solitaria collana di Tsai. La cameriera e Rawang vogliono dormire col protagonista, avvertire (il suo) calore in una realtà pressoché glaciale.
H come Hsiao-Kang
Che è diverso ma che è sempre lo stesso. Assumendo differenti personalità che nascono e muoiono nello spazio di un film per ripetersi immediatamente nella pellicola successiva in un andamento spiralico, egli incarna le molteplici maschere dell’uomo moderno annichilito da altrettanti molteplici fattori.
I come impossibile
Impossibile che le persone si conoscano senza parlarsi, impossibile che un’anguria sostituisca una vagina, impossibile che non smetta mai di piovere, impossibile che due dipendenti di uno stesso cinema non riescano mai ad incontrarsi. Impossibile che Hsiao-Kang peschi qualcosa in quella pozza d’acqua, però è bello crederci.
L come libellula
Probabilmente non è una libellula quella che si posa sulla spalla di Hsiao ma poco importa. Perché come in Dolls (2002) di Kitano o in Dream (2008) di Kim la farfalla è l’armonia con tutta la sua leggerezza, classe, purezza. Qualità che nulla hanno a che vedere con le infamità in cui i personaggi sono loro malgrado invischiati. È forte il contrasto tra la bellezza dell’insetto e la freddezza del palazzone fatiscente.
M come materasso
Il materasso ritorna. In Vive l’amour (1994) era una barriera invalicabile che costringeva un giovane Hsiao ad assistere all’amplesso fra una donna e l’uomo che amava schiacciato sotto di esso. Qui cambia, diventa un giaciglio che accoglie le anime. Da un materasso preso dalla spazzatura fiorisce una sorta di relazione, tanto curiosa quanto indefinibile, ma autentica, questo sì.
N come noia
Si siederà affianco a voi in ogni film di Tsai. È l’inevitabile controindicazione del suo cinema. L’errore più grande, che ho commesso io stesso durante le prime visioni, è quello di rimarcare la pesantezza delle sequenze. Sbagliato, con Ming-liang dovete usare la noia, prenderla come una parentesi, corta o lunga che sia, in un aureo discorso che vi porterà sempre, e dico sempre a Pensare.
O come omosessualità
Che è una costante nel cinema di Tsai, il quale riesce a declinarla in maniera strepitosa. Non è mai sordida o allusiva, né apologetica o commiserativa. Si avverte come un sentito sbiadito al pari dell’amore etero, portatore più di dispiacere che di felicità. Anche qui non si capirà con chiarezza se Rawang sia davvero innamorato di Hsiao oppure si tratti di una forte amicizia. Probabilmente non è importante saperlo.
P come profondità
Tsai lavora principalmente con la camera fissa, non è lei a muoversi ma gli attori davanti ad essa. Ogni tanto però regala dei campi lunghi stile Roy Andersson in cui l’occhio si perde nelle profondità di un universo assiderale. I personaggi ci sono, ma sono piccoli, relegati al bordo dello schermo a metafora del loro essere-nel-mondo.
Q come quadro
Tsai non è prettamente un esteta come può essere Kim Ki-duk o Park Chan-wook. Nonostante le scenografie siano sempre curate fino al minimo dettaglio, l’impatto visivo nella sua globalità non è troppo stordente come lo può essere per i due registi citati sopra. Detto ciò sarebbe una follia non sottolineare la profonda bellezza che suscitano alcune riprese, in questo lungometraggio il top lo si raggiunge nell’edificio in costruzione in cui c’è tutta la decadenza del post-moderno, anche se non so esattamente cosa significhi.
R come regia
Inconfondibile. Scontato ripetere gli stilemi di questo cineasta così come è fastidioso parlare per aut-aut (o piace o non piace, o lo si ama lo si odia). Il suo cinema va metabolizzato, ci vuole tempo per provare capire a la sua essenza. Ne vale la pena impiegare questo tempo? Secondo me sì.
S come sesso
Forse più in altri film, penso al meraviglioso Gusto dell’anguria, ma anche qui il sesso è vissuto, attuato e subito come una forma di pos-sesso. I personaggi prendono, o vogliono farlo, i corpi di altri simili. Il corpo è un oggetto preteso, il rapporto sessuale si spoglia di ogni sentimento per diventare atto meccanico, intersezione di corpi fatti di cartapesta, vuoti dentro.
T come Tsai
Per la prima volta nella sua carriera ritorna nella terra d’origine, la Malesia. Non cambia sostanzialmente niente nei fatti, buffo invece di come proprio nel paese natio il film venne inizialmente censurato poiché metteva in cattiva luce il paese per poi venire trasmesso ma con alcuni tagli.
U come umanità
Impossibile parlare di umanità con Tsai. Piuttosto si parla dei residui di essa e della crisi valoriale in cui gli uomini dei suoi film sono attanagliati. In I Don’t Want to Sleep Alone si affidano in massa alle preveggenze di un ciarlatano, dei balordi picchiano senza pietà un poveraccio, la padrona costringe la cameriera a masturbare il ragazzo-vegetale.
V come vittime
Lo sono tutte le ombre che hanno calcato i vari set nel corso degli anni a partire da Rebels of the Neon God (1992). Vittime per motivi esogeni (la civiltà che li attornia è vicina al collasso) e motivi endogeni (sono incapaci loro stessi di riattivarsi) subiscono il fato, non-vivono per caso e sono in balia di un presente che non riserva futuro. Il duplice Hsiao è un pezzente ed un malato grave, paradigma di una statica condizione personale.
Z come zeta
Come la fine. Il finale epifanico, quid pluris nel cinema di Tsai, vede Hsiao, la cameriera e Rawang sdraiati sul materasso che naviga in uno specchio d’acqua. Potrebbe apparire come un finale positivo, memori del fatto che l’autore sappia comunque confidare nella speranza (Il buco) quando vuole. I dubbi permangono, in ogni caso. Con l’arrivo della cappa di fumo a preludio di una fine inevitabile, quella conclusione così irreale sembrerebbe un limbo infernale, e quel materasso l’ultimo avamposto del genere umano. Perché in fondo quelle tre persone si vogliono bene, in qualche modo.
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