I riferimenti della mia analisi sono Papa Wojtyla e Papa Ratzinger che rappresentano come i due estremi della concezione del Papato. È stato, infatti, giustamente fatto presente che il primo ha portato la sua croce di sofferenza sino in fondo non rinunciando al suo incarico e seguendo in questo la sua coscienza. Nella sua dichiarazione Benedetto XVI lo riconosce, eppure la stessa coscienza che ha indicato a Wojtyla di proseguire ha convinto Ratzinger che era il momento di ritirarsi.
Il problema della coscienza mi pare essere la vera origine dello sgomento dei fedeli cattolici (certo più del problema di come appellare un papa non più tale e ancora vivente!), ma non la giusta chiave di lettura degli ultimi episodi vaticani.
In realtà il confronto tra le due opposte decisioni impone l’utilizzo di un paradigma più ampio. La loro diversità assoluta nel temperamento e nella visibilità mediatica è solo un pallido riflesso delle loro opposte concezioni teoriche sulla natura del ministero pontificio.
Per Wojtyla esso ha ancora una natura ancipite, sì pratica ma soprattutto mistico-spirituale. Per Ratzingerinvece la separazione viene sanata e l’aspetto spirituale del suo ministero non può prescindere da quello materiale, anzi ne viene fortemente condizionato.
Ma ora devo chiarire cosa intendo per natura spirituale del papato, che non è semplicemente la coscienza che il papa ha, sempre e comunque, di essere la guida di oltre un miliardo di fedeli cattolici quale rappresentante di Cristo in terra (“il romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli”, Lumen Gentium, 23).
Giovanni Paolo II ha inteso in senso mistico il proprio ministero, sdoppiando il suo essere Papa dalla sua funzione di Papa. Pur incapace per la malattia di governare, ha continuato a rappresentare il suo ufficio sino alla fine. Benedetto XVI, invece, ha valutato diversamente le bufere (Vatileaks, la pedofilia dei preti, le divisioni all’interno della curia pontificia) e l’opportunità di continuare, lui, a combatterle. Non ha abdicato, non si è arreso, ha bensì reso il più grande servizio alla Chiesa: quello dell’umiltà e del sacrificio, dell’ascolto dei segni e della profezia.
Nella teoria dei due corpi del re (“The King’s Two Bodies”) lo storico del Medioevo Kantorowicz analizza la formazione nel Medioevo dell’ideale della duplice natura del potere monarchico, dei suoi due corpi: l’uno destinato a perire, l’altro a perdurare. La natura divina del re è eterna in quanto tale ma via via incarnata in una figura concreta. Esattamente quanto accade per il papa.
Ma è legittimo applicare il paradigma interpretativo di Kantorowicz al Papato?
Alla luce della storia, sì. Il papato nel Medioevo dal Medioevo in poi (un momento saliente fu il Dictatus papae di Gregorio VII nel 1075) si andò configurando come monarchia assoluta e anzi fu modello per le altre monarchie europee: il monarca pontificio possedeva il diritto esclusivo di riconoscere la legittimità dell’investitura monarchico-imperiale anche al resto delle dinastie europee!
D’altra parte, il nucleo del Cristianesimo è l’incarnazione di Cristo e dunque il dualismo spirituale-temporale non può non risiedere nei suoi massimi rappresentanti (i vescovi e segnatamente il vescovo di Roma).
Dunque si può dire che l’affermazione scolastica “papa qui potest dici ecclesia”, l’identificazione mistica tra papato e Chiesa e la conseguente, speculare concezione della chiesa come corpo mistico di Cristo, è alla base della monarchia pontificia. Il papa è ‘alter Christus’ e capo della Chiesa.
Kantorowicz rintraccia nel dualismo di corpo personale e corpo mistico del papa-Chiesa l’origine della “maestà gemellare” del re:
Here, at last, in that new assertion of the “lord’s Two Bodies”—in the bodies natural and mystic, personal and corporate, individual and collective of Christ—we seem to have found the precise precedent of the “king’s two Bodies.”
Sui danni venuti alla Chiesa per via delle commistioni tra potere terreno e spirituale per la Chiesa cattolica di Roma si è detto molto. Non è ormai negabile da nessuno che la frattura apertasi con Pio IX e il Risorgimento italiano e chiusasi solo nel 1929 con il Concordato sia stato un provvidenziale, seppur dolorosissimo e spesso cruento processo di restituzione a Cesare e a Dio del proprio (“unicuique suum”).
Ora, il gesto di Benedetto XVI mi pare essere proprio l’ultimo capitolo della definizione della tesi monarchica del papato, nel senso che si riconciliano i due aspetti, per secoli opposti e incomunicanti, di mistico e corporale, missionario e istituzionale, invisibile e visibile.
La dinamica delle dimissioni del Papa sono l’exemplum concreto della parabola del papato che ora può continuare il suo ruolo con una piena e compiuta autocoscienza dei propri limiti e poteri.
Non vorrei però che si confondessero le mie riflessioni con la pur a tratti acuta analisi dell’articolo di Scalfaridi domenica 17 febbraio su Repubblica, dove viene invocato un nuovo Gregorio VII (ma in che termini poi nello specifico non si capisce…!) e si lega la rinuncia di Benedetto XVI all’incapacità del pontefice di risolvere i gravi problemi, che ci sono, all’interno della Chiesa cattolica e della Curia pontificia. Il legame tra l’esistenza di problemi ecclesiastici e le dimissioni del Papa è palese solo a chi (Scalfari in primis) ce lo vuole vedere, ma la necessità del nesso è arbitraria.
Questo Pontefice non ha voluto riaffermare, fallendo, il potere temporale contrapposto a quello spirituale, al contrario ha voluto risanare il divario tra carne e spirito, istituzione Chiesa e vocazione spirituale del clero, con buona pace dei laicisti come Scalfari, che hanno sempre remato contro questo Papa salvo ora trovarlo ‘moderno’ perché ammette la sconfitta aprendo così ad una nuova era della Chiesa cattolica (praticamente il preannuncio della sua totale autodistruzione!).
Al contrario del pensiero di Scalfari, la rinuncia di Benedetto XVI non apre in seno alla Chiesa una “ferita” difficile a rimarginarsi, ma la chiude dopo secoli, aprendo ad un naturale continuum istituzionale e spirituale.Gianfranco Pellegrino