Magazine Fotografia
In questa foto (di Eleonora Mocini) sono in una pausa di relax durante il Corso di Fotografia che sto tenendo a Tuscania con l'associazione "I Giardini di Santa Croce". Guardandola mi è venuta in mente l'iconografia del fotografo "classico": camicia di flanella a quadrettoni stile canadese, pantaloni verdi da escursionismo, scarpe da ginnastica. Se fossi Clint Eastwood (e utilizzassi i jeans, che invece odio) sarei perfetto. Molto anni '90, forse con un tocco anni '80. In fondo ho cominciato a fotografare seriamente nel 1988, e avevo 24 anni. E tenete conto che sono uno che al look ci tiene il giusto: cioè nulla. Direte: ecchisenefrega del tuo look o del look del fotografo in generale! Un attimo. Aspettate. Perché l'abito fa il monaco, quando si tratta di artisti e annessi e connessi. Almeno lo fa presso il pubblico che ci guarda, che vede quel che facciamo, che conosce magari il nostro lavoro. Andare in giro come se fossimo pronti a scalare il K2 in giornata, ci qualifica quasi subito come fotografi naturalisti. La mimetica stile "Desert Storm" e il cappello a falde larghe dice: fotografo di guerra (ma molti adottano mise più castigate, con jeans e gilet multitasche). La giacca con risvolti in tinta, camicia fighetta e a volte la cravatta (o il tubino se donna) fanno tanto fotografo di (alla) moda, e così via. Ricordo ancora, con un certo disappunto perché non sono mai riuscito ad adeguarmici, i consigli di alcuni libri sulla fotografia professionale, che invitavano con una certa perentorietà a "vestirsi bene", perché verremo sempre giudicati da come appariamo. La gente è superficiale, e chi ci guadagna sono i negozi di vestiario! Ma non è solo apparenza. Il vero fotografo, il vero artista, il vero creativo non si veste solo in modo acconcio: è anche un ragazzaccio. Un vero bastardo dentro, fuori e tutt'intorno. A proposito di storielle, mi viene in mente (e mi torna utile) questo raccontino ripreso liberamente da uno scritto del critico americano (recentemente scomparso) Bill Jay.
Dunque, siamo in Paradiso e c'è San Pietro che smista le anime verso le loro destinazioni per l'Eternità. Arriva un primo uomo, che in vita era stato buono e generoso, si era sempre comportato bene. San Pietro lo guarda, lo valuta, parlotta con un paio di angeli che lo assistono e gli dice: "va bene, brav'uomo, segui questo stradello alle mie spalle sinché arriverai a una baracca di legno in mezzo a un campo incolto. Non è un granché ma se ripari il tetto e tagli l'erba ci starai benissimo!". Un po' deluso, l'uomo mogio mogio si avvia per il sentiero. Dopo di lui arriva un Vescovo che in vita aveva fama di santità. Si era sempre attenuto alle regole, aveva guidato le persone a lui affidate con spirito cristiano e misericordia, e mai aveva deviato dalla retta via. La scena si ripete: San Pietro riflette, parlotta con gli angeli e poi sentenzia: "per voi, caro Vescovo, abbiamo una piccola villetta trasandata in cima a un colle. Non è arredata e i vetri alle finestre sono rotti, ma con un po' di buona volontà riuscirà a sistemarla e a renderla confortevole!". Visibilmente amareggiato, il Vescovo si avvia lentamente verso la collina. Dietro di lui, arriva un tipo strano, con barba incolta e capelli lunghi. A vederlo, San Pietro si illumina tutto, gli sorride, lo affida a un gruppo di bellissimi angeli e gli fa: "Benvenuto! Segui questo gruppo di angeli che ti porterà nella villa di lusso che abbiamo riservato per te!". Il Vescovo, che si era voltato ad ascoltare, torna sui suoi passi e, rosso in viso, con voce alterata, chiede a San Pietro: "ma come? Io mi sono sempre comportato bene, ho fatto tutto quanto era in mio potere per essere santo e ho in cambio una catapecchia, e quello là lo trattate come fosse una divinità? E chi sarà mai!". E San Pietro, con fare paziente: "hai ragione, ma bastava guardarlo per capire che quello era un fotografo. Ed è il primo che abbiamo mai visto...".
I fotografi non sono bravi ragazzi e non vanno (in genere) in paradiso! Naturalmente, il "non essere bravi ragazzi" si riferisce alla percezione che hanno le persone rispetto a chi pratica un'attività artistica (e infatti, riguarda pittori, scultori, musicisti, poeti, scrittori...). Se uno non è tormentato, sempre in bilico tra un bicchiere di whisky, una tirata di coca o il suicidio, allora "non è un bravo artista". I più bravi, i maestri, sono quasi tutti morti per overdose, per cirrosi epatica, o per aver spettacolarmente posto fine alla propria vita saltando su una mina o buttandosi da un ponte (non uno di quelli di Madison County). Soprattutto, in buona parte sono morti giovani. Ah, il mito Romantico dell'Artista! Molto spesso vero, per carità. Ma il più delle volte incredibilmente falso, soprattutto oggi. In un'era che monetizza tutto, che ha fatto del virtuale (e del digitale) la propria religione, l'artista è principalmente un imprenditore, uno che sa sfruttare la propria immagine come una vera star. Pensa ad accumulare denaro, non al sucidio!
Poi ci siamo noi normali (anche se chi mi conosce dirà che autodefinirmi normale denota un eccesso di autoreferenziale generosità), noi che pratichiamo la nostra arte per passione e con ritorni economici che più che ritorni sono perenni partenze. Noi che indossiamo la prima cosa che ci capita sotto mano (lo so, si vede) che veniamo sgridati per non essere adeguati al nostro ruolo, che scegliamo sempre gli stessi indumenti perché così si va sul sicuro (eppoi mi fa tenerezza vedere che a 50 anni ancora appaio nelle foto come quando ne avevo 20: cioè, almeno i vestiti sono uguali uguali), e abbiniamo i colori nel modo più semplice (grigio e crema sono neutri e non si corrono rischi). Forse ha ragione chi dice che il vero artista lo si riconosce al primo sguardo. Perciò ora scusate, ma vado a farmi il primo whisky della giornata, a vedere se in giro c'è uno spacciatore di coca e medito su come possa suicidarmi in modo spettacolare. Però no, il vestiario mi tengo quello di quando ero ragazzo. Al cuore non si comanda, che diamine!
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