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I ♥ Glee: 5x03 - The Quarterback

Creato il 11 ottobre 2013 da Mik_94
I ♥ Glee: 5x03 - The Quarterback "Tutti vogliono parlare di come è morto, poi, ma a chi importa? Un solo istante in tutta la sua vita. A me interessa più come ha vissuto." Io odio tante cose. Odio le ostentazioni e le scenate. Odio quando il dolore viene urlato e le lacrime, come fiumi di falsità, scorrono dagli occhi. Odio dover star male. Odio le cose fuori programma. Odio questo post, che racchiude tutto quello che mi fa paura: il dolore, il disordine, la fatalità. Non era programmato, ma nemmeno la morte di un ragazzo di trent'anni lo era. Sovverte ogni piano, ogni regola, ogni ordine. Ogni certezza. Avevo tante cose da fare, oggi. Avevo evitato accuratamente di ricordare che, come ogni venerdì pomeriggio, c'era Glee ad aspettarmi. Poi il mouse è corso naturalmente a play, la musica è partita e, insieme a lei, il terzo episodio della quinta stagione di uno dei miei telefilm preferiti: quel Glee che è gioia pura. Un cielo senza nuvole, una giornata senza la tristezza. Ma qualcosa era cambiato sin dall'inizio. Sin dal primo episodio della nuova serie, debuttata tre settimane fa in America, c'era una sedia vuota in mezzo a quei personaggi che, ormai, chiamo familiarmente per nome. Una voce in meno in un coro che non canta più come una volta. Il 13 Luglio 2013 – quasi tre mesi fa – la realtà è piombata a peso morto sul cast intero, creando una frattura ampia un metro e novantuno che ha messo ogni cuore a soqquadro. Cory Monteith, il gigante buono che aveva dato la sua voce, i suoi occhi scuri e il suo sorriso cordiale al personaggio dell'onesto Finn Hudson, è morto. La sua vita riassunta in un trattino come un altro: 1982 – 2013. Trentun'anni, miliardi di sogni, una vita intera riassunti così. Un'esistenza, come spesso accade in questo mondo, spenta bruscamente da un'insana e drammatica dipendenza. Non vi dirò che è sbagliato, perché lo sapete già. Non vi dirò che ci sono persone che muiono ogni giorno e che hanno sorti decisamente peggiori, perché lo scopro istante dopo istante, proprio intorno a me. E voi, facciamo questo patto sacrosanto, promettetemi che non direte che, come Amy Winehouse e altri prima di lui, Cory se l'è cercata; promettetemi che non lo accuserete di aver raggiunto il fondo volontariamente, a forza di bracciate, e di aver lasciato che il suo talento morisse egoisticamente insieme a lui. Lo diceva Tolstoj, non lo dico io: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Ci sono storie, e dolori, e stati d'animo che noi, dall'esterno, non conosceremo mai per davvero. Noi non conosceremo mai per davvero Cory Monteith. Io non lo conosco abbastanza per giudicarlo, ma lo conosco abbastanza per celebrarlo a modo mio. Glee, oggi, mi ha giocato un brutto – bruttissimo – scherzo. Ho spento la TV, mi sono alzato dal divano in fretta e furia e mi sono asciugato gli occhi con la maglietta, ripetendomi che quel plaid un po' umido, in un angolino, non era colpa mia. Un plaid, sì, anche se non avevo freddo, all'inizio. Poi, dalla prima scena, il mio cuore ha perso qualche battito e la temperatura è scesa, disegnando sulle mie braccia una pelle d'oca che ancora non va via. The quarterback è un addio. L'episodio che Ryan Murphy ha scritto in memoria di una persona a cui tutti quanti abbiamo voluto istintivamente bene. I personaggi del cast erano in una fila ordinata, sul palcoscenico illuminato – per una volta – senza sfarzo. I vestiti neri, gli occhi fissi. Meravigliosi e impeccabili come sempre cantavano l'intro del musical Rent, Season of Love, e rivolgevano i loro acuti e le loro armonizzazioni a un posto tristemente vuoto, giù in platea. La foto di Cory è comparsa alle loro spalle e la puntata vera e propria è iniziata. Una puntata strana, in cui la finzione e la realtà si sono confuse per quaranta minuti. O forse ero io ad essere confuso, per via delle lacrime, necessarie ed immancabili. Puntuali. Gli attori hanno svestito i panni dei loro personaggi e, quasi in borghese, hanno interpretato loro stessi, non dovendo fingere – per una volta – una spensieratezza che non c'è. Tre mesi fa, il mio pensiero è corso a loro: una famiglia con un membro in meno. La mia famiglia, senza più un fratello maggiore. La puntata mostra le loro reazioni, in un episodio dalla trama inesistente in cui solo il rimpianto e la commozione restano. Le coreografie non ci sono, le canzoni sono bisbigli, i personaggi improvvisano il dolore che hanno conosciuto da vicino. Io ero con loro; sono stato con loro dal primo minuto all'ultimo. Faithfully. Li ho abbracciati da lontano e, come una spugna, ho assorbito un po' del veleno che aveva corrotto la loro linfa colorata: io, che non sono mai stato un tipo empatico. Glee è l'orlo argenteo delle nuvole. Mi ha dato tanto e, in un solo episodio, mi ha tolto tanto. Ha rubato la trave portante di una facciata, che ormai è crollata in un ammasso di sassi brutti e grigi. Me lo aspettavo, ma non me lo aspettavo. Invece, in quella fiaba canterina un po' inverisimile e ingenua - ma taaanto adorabile - in cui due ragazzi gay possono sposarsi, un adolescente sulla sedia a rotelle più conquistare la più sexy della cheerleader, un ragazzo trans può camminare senza maschere per i corridoi del suo liceo, per una volta, c'è stato spazio per il dolore autentico. L'ho sentito, assordante e violento, scostare il tendone rosso e salire sul palcoscenico. Senza invito, indesiderato. Era nello sgomento senza voce del professor Schuester, nella rabbia di Puck, nelle battute acide di Sue, nel coraggio che Santana trova dentro di sé per imparare a liberarsi da quel groppo che le impediva anche di cantare. Era in Rachel, la straordinaria Lea Michele, che ha perso il suo fidanzato dentro e fuori dal grande schermo. Non solo per finzione. Lei è Glee. Un'anima senza un pezzo importante, un corpicino da stringere incredibilmente forte a sé, la voce di un angelo e la forza di un leone. Ha finto finché ha potuto: anche nella prima puntata di questa nuova serie, quando cantava malinconica Yesterday, tutti noi sapevamo che aveva parole, occhi, orecchie e battiti solo per il suo “Finn”. Se avessi saputo cantare, io avrei cantato insieme a loro. Sul divano, invece, mi sono limitato a tirare su con il naso e a muovere la bocca in silenzio, modellandola su canzoni che risentirò fino a farmi sanguinare le orecchie; come un pesce rosso sbalzato via dalla sua bolla di vetro. Scrivere queste righe è stato il mio atto catartico. E forse starò meglio, tra un po'. Glee fa venire voglia di cantare a chi è stonato come me; fa venire voglia di ballare a chi, impacciatissimo, ha due piedi sinistri; fa venire voglia di piangere anche a chi non sa farlo più. Fa venire voglia di vivere anche a chi, dal fondo del suo lutto, si ripete che non potrà sopravviere. La 5x03 di Glee è una puntata che non cancellerò mai dal mio Pc e dalla mia mente: toccante, liberatoria, delicata, schietta, memorabile. Mi ci voleva – oppure no. Forse no! – ma finalmente tutti hanno potuto dire il loro ultimo addio, insieme a me, al ragazzone che, con la sua giacca rossa da football e il suo ricciolo ribelle, era un po' il nostro Superman. Quand'è stato il nostro turno - anche se non è stata colpa di nessuno, lo so - non siamo riusciti a salvarlo. Si è tenuto, fino alla fine, il suo dolore per sé, fino a scoppiare in mille pezzi confusi: potete vederla come viltà, la sua, o come la stupida, eccessiva, folle bontà di chi – con i suoi drammi – non voleva essere un peso per gli altri. Sapete già cosa penso io, per quel che vale. E, sempre per quel che vale, anche se forse lui non mi sentirà, dove si trova adesso, io glielo dico lo stesso: grazie. Per la musica, le risate, la tolleranza, il sorriso sempre pronto. Ti abbiamo voluto tutti bene, e te ne vorremo sempre. 
Senza rancore.

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