Unione Sarda, 19 febbraio 2011 – C’è un aggettivo che ritorna spesso quando si parla di Thomas Pynchon. L’aggettivo è “labirintico” e definisce in primo luogo la sua scrittura, ma anche il gioco di specchi dietro il quale lo scrittore americano si nasconde da sempre. Il suo vero volto è sconosciuto al mondo, le uniche fotografie che circolano, sempre le stesse quattro, lo ritraggono adolescente con due incisivi da criceto e l’aria da nerd. Di lui non si sa quasi niente, a parte che ha 74 anni, che è sposato con l’agente letterario Melanie Jackson e che frequenta saltuariamente Don DeLillo. Eppure, ogni volta che esce un suo nuovo romanzo, come quest’ultimo Vizio di forma, pubblicato pochi giorni fa da Einaudi, frotte di ammiratori in tutto il mondo corrono a decrittarne gli innumerevoli rimandi, le citazioni, le inverosimili elucubrazioni che hanno fatto di lui un autentico mito vivente della letteratura postmoderna.
Per apprezzare la narrativa di Pynchon, infatti, bisogna addentrarsi in quel labirinto, con coraggio, ambizione e mantenendo intatta la consapevolezza che nelle sue storie non ci sono mai i consueti punti di riferimento. Così non sappiamo in quanti siano ad amare davvero questo autore, perché magari hanno avuto in dono il filo d’Arianna per attraversare le sue storie pazzesche e inverosimili, e quanti invece non accetterebbero mai di confessare la loro (umanissima) incapacità di goderne. In certi ambienti, del resto, dire di essere fan di Pynchon è una specie di status symbol, un veicolo capace di aprire le porte di ogni conversazione letteraria.
Vizio di forma , però, è stato annunciato come il suo libro di più facile lettura. Lo è senz’altro, se paragonato ai precedenti Mason e Dixon e Contro il giorno (entrambi pubblicati in Italia da Rizzoli), ma non lo è affatto in senso assoluto. Tecnicamente si tratta di un noir hippy, ambientato nella Los Angeles degli anni Sessanta, dove tutto è droga e surf, sesso e paranoie da marijuana. Il protagonista è un investigatore privato, Doc Sportello, una specie di big Lebowski appena più sbandato, che deve aiutare l’ex fiamma Shasta, diventata nel frattempo l’amante di un costruttore di nome Mickey Wolfmann. Lei teme che la moglie di Mickey lo voglia far sparire per allungare le mani sul suo patrimonio. Ma la prima a far perdere le tracce sarà proprio Shasta.
Da qui prende avvio una funambolica avventura lunga 400 pagine, in cui i misteri si sommano ai misteri, e dove spesso si occhieggia ai grandi classici dell’hardboiled – il genere che fece la fortuna di autori come Raymond Chandler – al kitsch più estremo e al gusto per l’iperbole. La cultura pop americana è così messa alla berlina. E la rappresentazione degli anni Sessanta diventa il pretesto per delineare un affresco a tratti struggente di un’epoca al tramonto.
Ma Vizio di forma è anche un gioco continuo col tempo e con le prefigurazioni di quello che verrà (“ – È una rete di computer, Doc, tutti collegati insieme da linee telefoniche […]. – Questo sistema è anche in grado di dirmi dove posso procurarmi un po’ di fumo?”), un andirivieni tra il reale e l’immaginario. Il tutto tenuto insieme dall’ironia e dall’irriverenza, ma anche da una prosa a cui spesso è difficile stare dietro e da una trama “labirintica” (manco a dirlo) e irregolare. Questi, a giudizio di molti, i veri marchi di fabbrica della ditta-Pynchon.
Insomma, anche se stiamo parlando di uno dei mostri sacri della cultura contemporanea d’oltreoceano, è ancora lecito, entro i limiti del possibile, parlarne male. O al limite non parlarne affatto e confessare, come fece Ballard, di non aver letto le sue opere, semplicemente perché “troppo dense di idioma americano”.
ANDREA POMELLA