Marchionne lo aveva giurato, raggiungeremo anche in Italia livelli statunitensi. Si era dimenticato di aggiungere non di efficienza e produttività, ma di gangsterismo stile anni ’30 in funzione antioperaia ed antisindacale. Quello che sta accadendo alla Fiat Sata di Melfi è l’esempio preclaro di come questi amministratori privati, più prenditori che imprenditori, più animali camaleontici che animal spirits, stiano adottando l’arma del terrore e della minaccia per ridurre in catene i ceti subalterni e violentare la dignità delle tute blu alla catena di montaggio. Costoro adorano il vitello d’oro di un capitalismo da putrefazione finanziaria da potenza decaduta, seppur coperto con la bandiera della patria, ultimo rifugio delle canaglie; rifiutano il compromesso per puro sfascismo e non per ragioni di miglioramento della performatività dei processi, dei prodotti e degli investimenti (i quali infatti si concretano esclusivamente in vacue promesse da capitani poco coraggiosi ed ammutinati contro lo Stato); vengono adulati dalla stampa perché considerati visionari riprofilatori delle relazioni industriali in un Paese arretrato e fermo al conflitto ideologico capitale/lavoro, ovvero alla dicotomia irriducibile padroni/proletari vechia di due secoli; si coprono dell’aura degli innovatori e dell’aureola dei martiri sabotati nel rinnovamento dai nullafacenti e fannulloni abituati a scansare fatiche e responsabilità; ma poi, così buoni e futuristi, filantropi e perbenisti, giungono ad affidare a veri schlammer (picchiatori) il mantenimento dell’ordine nelle loro aziende per azzerare i diritti dei lavoratori. Chi scrive non ama la Fiom e nessun altro Sindacato confederale burocratizzato e autorefenziale, preoccupato esclusivamente di perpetuare i propri apparati organizzativi piuttosto che difendere i livelli occupazionali e retributivi, responsabile del ristagnamento economico della nazione al pari delle rappresentanze confindustriali esprimenti il peggio delle caste parassitarie della Grande finanza e dell’Industria Decotta di precedenti ondate tecnologiche, ma ciò non toglie che la violenza fisica e morale contro le maestranze non è degna di uno Stato civile e non ha nulla a che vedere con l’esigenza di far ripartire il motore industriale dello Stivale. Quanto di più lontano, insomma, da quella rivoluzione culturale tanto sbandierata dai tecnici politicizzati, dai circoli mediatici accecati e dalle cricche manageriali anglobalizzate che imputano la caduta a picco del benessere del Paese a corporative rigidità medioevali del mercato del lavoro e all’invasività della mano pubblica nelle faccende private. Mano pubblica che invade soltanto quando non elargisce a fondo perduto e questo Marchionne, leader della fabbrica più assistita d’Italia, dovrebbe ricordarselo. Qui, anzichè alla riforma degli assetti industriali siamo semplicemente alla controriforma dei bassi istinti delinquenziali del proprietario delle ferriere, ormai sulla via del fallimento, che per recuperare le spese deve utilizzare capetti e kapò al fine di spremere a dovere i suoi salariati, prima di buttarli definitivamente nella pattumiera di una manifattura ormai fuori corso storico. Noi lo avevamo detto, quello di Marchionne in Italia è tutto un bluff, il Paese per la Fiat non è più appetibile e non rappresenta una piazza profittevole dove vale la pena rischiare. L’unica ragione per cui insistono con noialtri rinviene dall’esigenza di compiere appieno quella funzione di inabissamento politico e sociale delegata loro dalla Potenza centrale (e da tutto l’occidente civilizzato subdolamente ed infidamente dichiarantesi nostro alleato) che ci vuole irreversibilmente sottomessi a logiche di dipendenza economiche, tecnologiche, militari e, dunque, imperiali. Cioè loro l’impero gaudente e noi la provincia assoggettata e demente. Ci controllano dall’interno affinché non ci venga in mente di spostare capitali, competenze, uomini e risorse verso i settori ad alto valore aggiunto che non s’immergono, per scomparire definitivamente alla vista epocale, in mercati saturi dove si fanno la guerra i poveri di creatività e di mezzi, che non sfondano porte aperte di stanze concorrenziali sovraffollate dove si raccolgono le briciole. Ci tengono in ceppi affinché non ci nasca in testa l’idea di avventurarci nelle opportunità che creano prodotti e implementano processi volti allo schiudimento di inesplorati o quasi vergini luoghi di guadagno e di futura competizione, col vantaggio che chi prima arriva meglio si sistema, godendo per qualche tempo di una posizione dominante. No, ci vogliano sarti, parrucchieri, operatori turistici, “salottai”, viticoltori, albergatori, pasticceri e, soprattutto, pasticcioni in constante gareggiamento per la sopravvivenza con i paesi del terzo mondo. Marchionne è di questa pasta vile e tali episodi esecrabili al di fuori della legalità accaduti nei suoi stabilimenti rivelano perfettamente i suoi truci piani. Dobbiamo reagire duramente contro chiunque tenti di fare della nostra terra un suolo di scorrerie e razzie per conto di predoni internazionali. E tanto vale sia per la Basilicata che per l’Italia intera. Oggi, con queste premesse, non possiamo che essere schierati dalla parte degli operai di Melfi e avverso i banditi che li minacciano a nome della ditta e della dittatura antinazionale. CLICCATE SUI LINK E DIFFONDETE QUESTA VERGOGNA!
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