Attorno ai 9 anni andare a letto era per me come prenotare un posto in prima fila al cinema. D’altra parte la disciplina paterna – mai troppo ferrea, per la verità – prevedeva che alle 9.30 bisognasse piazzarsi sotto le coperte e non è che ci fossero molte forme di distrazione. Non uno smartphone né un tablet da nascondere sotto il cuscino aspettando il momento adatto. Quindi, non mi restava che, spenta la luce, accedere i riflettori della fantasia. Che era bellica, per la verità. Altro che innocenza da bambini. I miei film prevedono battaglie campali, scontri fra eserciti maestosi, sgozzamenti, assedi, assalti. Ero anche molto vintage, però. Niente aggeggi moderni tipo tornado, fucili d’assalto, artiglieria pesante e leggera. No. C’erano alabarde, lance, scudi, spade, fanti e cavalieri.
Chi combattevo? Beh, questo era già più fumoso. Diciamo che era un generico e, lo ammetto, un poco modesto me contro il mondo. Solo dopo, imbattendomi in qualche libro di storia lasciato per casa o di scuola, non ricordo, io divenni, a mia insindacabile giudizio, imperatore romano contro i barbari. (Per la verità, mi dissi un paio di volte che avrei dovuto spiegare a me stesso come avessi potuto scalare così rapidamente i vertici dell’Impero ma, dopo tentativi fumosi, ritenni che la trama era noiosa, priva di azione e decisi che sarebbe stato Spielberg, un giorno, a pensarci).
Era il MIO esercito, la MIA battaglia e non combatteva per nessuno, se non per me. Non avevo, in quei sogni, come nella vita reale nessun senso di appartenenza alla comunità. Nemmeno sapevo che cosa significasse “comunità”. Certo, avevo la mia famiglia, ma non è che uno, a 9 anni, si sente appartenere alla famiglia. Sei IN famiglia, sei DELLA famiglia, è naturale (almeno, allora pensavo che fosse naturale, andate a spiegarmi che ci fossero bambini più sfortunati e bla bla bla), ma non è che questo ti faccia urlare dall’orgoglio. Insomma, capite cosa voglio dire.
Ero così chiuso nel mio mondo, così egocentrico, così concentrato su me stesso che non mi sentivo appartenere alla mia classe, né ai miei amici (ne avevo, ma vederli e starci lo consideravo al pari di un obbligo perché ritenevo doveroso che un bimbo di 9 anni ne avesse, ma, ancora una volta, non è che fossi entusiasta nel vederli o prostrato quando me ne dovevo separare) né al mio paesello.
Poi fece irruzione nella mia vita il calcio. Non ricordo niente di prima di allora. E non ricordo se avessi iniziato a manifestare interesse verso questo sport o qualcosa del genere. So solo che avvenne all’improvviso e fu come un colpo di fulmine. Come quando incroci uno sguardo femminile e ti innamori, senza saper da dove arrivi la ragazza, dove vada, cos’abbia fatto fino ad allora eccetera. Ed è grazie al calcio che mi accorsi che lì fuori c’era un mondo
1. Continua.