Son la bellezza di 14 film. Francis Coppola, Martin Scorsese, Tinto Brass, Paul Schrader, Mario Soldati, Mario Camerini, Tim Burton, Robert Aldrich. Un giovane De Sica. Una Jennifer Lawrence agli esordi. E altro ancora.
Senso ’45 di Tinto Brass, Cielo, ore 21,10.
Tinto Brass rifà a modo suo, accentuando e espandendo fino al punto di esplosione il tasso di erotismo visibile, Senso di Visconti e il racconto di Camillo Boito che ne è all’origine. Caduta e abiezione di una signora rispettabile che, per amore e soprattutto per desiderio di un uomo più giovane di lei, non esita a mettere in gioco tutto quello che ha, affetti, posiziono sociale, onore. Tinto Brass sposta l’azione dalla Venezia ancora occupata dagli Austriaci ma prossima a passare all’Italia di Visconti-Boito, al Veneto (e alla Venezia) foschissimo della Repubblica di Salò allo stadio terminale. La moglie di un uomo molto in alto nella gerararchia fascista perde la testa per un ufficiale delle SS. Sarà una discesa all’inferno, fino alla vergogna. Il clima plumbeo e fantasmatico di Salò ben si addice a questa storia di perdita di sé, di fine di un mondo. Con Anna Galiena che se la deve cedere con il modello, insuperabile, di Alida Valli. Come ufficiale sexy delle SS e angiolone perverso un Gabriel Garko non ancora eroe delle soap televisive. Buon film, davvero.
17 ragazze di Delphine e Muriel Coulin, La effe, ore 22,05.
17 ragazze, dunque, operina del 2011 che ha spiazzato e un po’ divertito con i suoi toni da commedia la Francia. Diretto da due registe sorelle, Delphine e Muriel Coulin, ci racconta di una liceale che cade incinta di uno che non è neanche il suo boyfriend. Intorno a lei, un villaggio in cui la crisi della pesca sta portando una continua riduzione del benessere. Sarebbe forte la pressione sulla ragazza perché si liberasse del bambino. Ma a darle man forte arriveranno 16 sue compagne di liceo, che decideranno per solidarietà di farsi mettere incinte pure loro, e così sarà. 17 gravidanze, tutte insieme. Pradossalmente, attraverso quella precoce maternità di massa vogliono attuare la loro emancipazione, gridare la loro rivolta verso gli adulti, sottrarsi alle loro regole. Gravidanza come autodeterminazione e liberazione. Scompaginando decenni e decenni di battaglie femministe, capovolgendo il mito contemporaneo della maternità come schiavitù femminile. Tutto non nei toni del manifesto ideologico, tantomeno della concione neocon e pro-life, ma in quello della commedia. Divertente, però c’è da pensare, altroché se c’è. Presentato a Cannes, finalista César come migliore opera prima. Gran successo in patria, meno da noi. Una delle commedie meno ovvie degli ultimi anni.
Darò un milione di Mario Camerini, Rete Capri, ore 21,00.
Un film di quell’era cinematografica detta spregiativamente dei telefoni bianchi, sempre accusata di escapismo e ottundimento delle coscienze, e di essere oggettivamente complice e strumento delle manipolazioni di massa operate dal regime fascista del tempo. Visti oggi e senza paraocchi ideologici, quei film ci paiono invece di irreprensibile fattura, pieni di garbo e di una certa eleganza, mai sguaiati, un esempio di commedia borghese, o piccolo-borghese, che solo allora trovò cittadinanza nel nostro cinema e che nel dopoguerra sarebbe stata spazzata via dalla commedia popolare e pure, se è per questo, plebea. Mario Camerini di quel cinema fu il principe e il maestro, realizzando negli anni Trenta un film più bello dell’altro, opere fatte di leggerezza, classe, di una grazia infinita. Tant’è che si potrebbe, e dovrebbe, parlare di Camerini-touch come in America si parlava giustamente di Lubitsch-touch. Questo Darò un milione è del 1935 e dà il via alla grande stagione cameriniana (Gli uomini che mascalzoni in primis), oltre che alla coppia simbolo e coppia regina di quella commedia, Vittorio De Sica e Assia Noris. Un milionario che poco conosce la vita fuori dalla bolla di privilegi in cui è rinchiuso decide di uscire dal proprio mondo, di immergersi nel flusso della gente comune. Si travestirà da povero, promettendo di consegnare un milione a chi lo aiuterà e avrà pietà di lui. Ricorda qualcosa? Certo, l’eterno archetipo del ricco che si finge plebeo, da La regina Cristina a Il piccolo Lord. Con molte similutidini con il di poco successivo (1941) I dimenticati di Preston Sturges e affinità e risonanze con tanto Frank Capra. In Darò un milione il protagonista conoscerà una ragazza che nulla sa della sua vera identità, e immaginate come andrà a finire. Un incanto, ecco. Sceneggiatura di Cesare Zavattini, Ercole Patti e di quel Giacino ‘Giaci’ Mondaini che, ebbene sì, era il babbo di Sandra. Con, tra gli attori, Luigi Almirante, padre del Giorgio che nel dopoguerra diventerà il leader dell’Msi.
Non è più tempo di eroi di Robert Aldrich, Rai Movie, ore 21,15.
Un altro bellico (stavolta siamo nel 1970) di Robert Aldrich dopo Attack! e, soprattutto, Quella sporca dozzina, con cui Non è più tempo di eroi ha qualche punto di contatto. Nel Pacifico conteso tra giapponesi e americani un ufficiale Usa, fino a quel momento comodamente imboscatosi in ufficio a fare il traduttore, vien mandato in missione nella giungla con un pugno di uomini. Sarà un massacro. Con Cliff Robertson e Michael Caine. Muscolare e insieme barocco, come sempre Aldrich.
Il padrino parte II di Francis Ford Coppola, Rete 4, ore 21,30.
La seconda parte della trilogia coppoliana che costituisce un pezzo grande del cinema americano, e non solo di quello. Raro che un sequel sia all’altezza dell’episodio fondativo, ma questo lo è, anzi c’è chi lo ritiene anche superiore. Io continuo a preferire il primo, più compatto, qualcosa che ha la perfezione e la potenza del mito, però niente da dire, questa parte seconda è immensa. Ha però una struttura più complicata e sfrangiata, costruita com’è intorno a due piani narrativi. Il primo livello è in realtà il prequel di quanto abbiamo visto nel Padrino, mostrandoci come Vito Corleone da povero emigrato dalla Sicilia diventa Don Vito Corleone, il boss di tutti i boss. Dunque, un racconto di formazione criminale di folgorante esattezza, con Vito ragazzo che incomincia come manovale del crimine a Little Italy e poi man mano sale ai vertici usando il cervello e le armi con pari perizia. Lo interpreta, anzi incarna, un Robert De Niro che con questo ruolo non solo si prende il suo primo Oscar (come miglior attore non protagonista), ma fonda la propria leggenda di Actor Maximo, e davvero vederlo qui è qualcosa che non si scorda. L’altro livello del film è l’esercizio e l’estensione del potere – siamo nei tardi anni Cinquanta – da parte di Michael Corleone, il figlio istruito e quasi borghese che nel primo film avevamo visto diventare erede dell’impero mafioso del padre Vito, ed è un Al Pacino gigantesco che duella a distanza con De Niro (i due non si incontrano mai). Qui i toni sono più di crudeltà shakespeariana, con guerre di potere interne ed esterne al clan, e un Michael Corleone più spietato che mai. Il limite, se si può usare questa parola per un film titanico come questo, è che le due narrazioni si sovrappongono ma non interagiscono. Però, signori, che film.
Le ricamatrici di Eléonore Faucher, la7d, ore 21,20.
Film molto francese del 2004, e molto femminile. Ritratto in un interno di due donne, e a dirigere c’è una regista, ovviamente, Eléonore Faucher. La diciassettenne Claire si ritrova incinta, ma nonostante i problemi decide di tenersi il bambino. Trova rifugio, protezione e lavoro da Madame Melikian, di mestiere ricamatrice per l’Haute Couture, che un figlio invece l’ha appena tragicamente perso. Si ricama, e intanto i due destini femminili si intersecano. Claire imparerà un lavoro e a vivere nel mondo, Madame Melikian troverà in quella ragazza qualcuno cui voler bene. Atmosfere che non possono non ricordare il celeberrimo La merlettaia di Claude Goretta, film di lancio nei remoti anni Settanta di una giovane Isabelle Huppert. La retorica solidaristico-femminile e femminista è in agguato, e il film ci casca più di una volta. Però la visione vale grazie a Ariane Ascaride (Madame Melikian), che io adoro, la musa, l’attrice-feticcio (e la moglie) del regista marsigliese Robert Guédiguian. Chi l’ha vista in La ville est tranquille e nel più recente Le nevi del Kilimangiaro non può non amarla.
Malombra di Mario Soldati, Cielo, ore 1,05.
Trasmesso di notte, come si conviene a un film ormai sepolto, un film-samizdat al limite della clandestinità. Chi se lo ricorda più se non qualche cinefilo estremo? Chi mai oggi si sta a guardare questo meraviglioso bianco e nero che nel 1942 il regista-scrittore (più un’infinità di altre cose) Mario Soldati trasse da un fosco romanzo di Antonio Fogazzaro? Un gotico all’italiana, genere non proprio rigoglioso nella nostra letteratura soprattutto ottocentesca, che nelle mani di Soldati diventa un film di impressionante rigore formale. Chiamarono il suo cinema, e quello di altri autori come Poggioli, calligrafico, a indicarne il prevalere dell’aspetto estetico, e da allora quell’etichetta si è attaccata anche a questo Malombra (e a Piccolo mondo antico, sempre di Soldati, sempre da Fogazzaro) come una maledizione, mettendo in ombra altri meriti, come la perfezione della macchina narrativa. In una villa su un plumbeo lago dell’Italia del Nord (il Lago di Como, probabilmente, ma le atmosfere sono anche quelle più cupe del Lago di Lugano ramo Valsolda) la contessa Marina di Malombra si convince di essere la reincarnazione di una sua ava morta suicida. Storia di follia e possessione, che gioca con i demoni della mente e dell’anima come poche volte nel cinema e nella letteratura di casa nostra. Soldati impagina magnificamente questa storia, comunicandoci tutto il senso di mistero e di terrore. Film notturno, di paure e di fantasmi, di candele e torce che fiammeggiano al vento, di luci fioche che lasciano presto il posto al buio, di immensi saloni vuoti e densi di minaccia, di scale di marmo, soffitte polverose, tempeste ululanti. Isa Miranda, grandissima, anomala attrice Garbo-esque dalla faccia cosmopolita, fa suo il personaggio in un furioso processo di immedesimazione (eppure Soldati avrebbe voluto Alida Valli, con cui aveva girato, Piccolo mondo antico). Film seminale, che fonda il nostro cinema del terrore. I grandi horror tra anni Cinquanta e Sessanta di Mario Bava e Riccardo Freda hanno in questo Malombra il loro capostipite e modello di riferimento. Un classico, ma davvero. Io lo amo molto.
Costretto a uccidere di Tom Gries, Rai Movie, ore 23,45.
Western del 1968, di quelli che allora venivan detti crepuscolari per i loro chiariscuri, e il non più così netto confine tra buoni e cattivi. Intanto, in Italia il western rinasceva seclondo un nuovo paradigma. Qui un vecchio cowboy viene ingaggiato per tenere a bada una mandria, ma dovrà scappare dalla vendetta del padre di uno che ha ucciso. Si rifugia in montagna, incontrerà una giovane indiana. Dirige Tom Gries. Protagonista Charlton Heston.
The Burning Plain – Il confine della solitudine di Guillermo Arriaga, la 5, ore 22,55.
Lo sceneggiatore messicano Guillermo Arriaga, che con il regista Alejandro González Iñárritu aveva dato vita a AmoresPerros, Babel e 21 grammi, stavolta decide di mettersi in proprio. E si scrive e gira da solo questo film con la star hollywoodiana Charlize Theron. Tre donne, tre storie destinate a toccarsi e a confliggere. Un classico Arriaga, appunto, però meno riuscito dei suoi precedenti lavori con Iñárritu. Attenzione, c’è una giovanissima Jennifer Lawrence prima dei suoi Oscar e delle sue nominations. C’è chi se la ricorda a Venezia affermare candidamente di essersi pagata da solo il viaggio, visto che la produzione aveva previsto un budget solo per le star del film.
Beetlejuice di Tim Burton, Italia 1, ore 23,35.
Film giovanile (anno 1988) di Tim Burton. Commedia nera con fantasmi. Una coppia decede e dall’oltremondo decide di sabotare gli arroganti yuppies che vanno ad abitare nella loro casa. Molto timburtoniano. Gran successo all’epoca e nascita di un autore.
I guardiani di Israele (The Gatekeepers)di Dror Moreh, La effe, ore 0,30.
Sei responsabili dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno dello stato d’Israele, si raccontano davanti alla mdp, svelando retroscena e segreti delle molte missioni effettuate dalla guerra dei sei giorni in poi. Due i nemici da prevenire e combattere: gli attentatori palestinesi e la destra israeliana più fanatica e radicale. Ci si aspetta di vedere degli uomini duri, rocciosi e dogmatici, invece i signori dello Shin Bet mostrano duttilità e un sorprendente pragmatismo. Raccontando sì i propri successi, ma anche gli errori e i fallimenti. E spesso mostrandosi critici verso la deriva militarista dello stato. (recensione estesa)
Napoleon Dynamite di Jared Hess, Mtv, ore 23,30.
Uno di quei film-meteora che hanno (metaforicamente) ballato una sola estate, anzi una sola stagione cinematografica, accendendo entusiasmi e un culto devozionale, e poi basta, spariti, ingoiati nel nulla, rimossi, dimenticati. Era il 2004 e a Sundance esplose il fenomeno di questo Napolen Dynamite, successivamente distribuito in sala con il folgorante incasso di 45 milioni di dollari, un’enormità per un film costatone solo 400mila. Regista un certo Jared Hess di cui prima poco si era saputo, e poi ancora meno (se avete notizie, siete pregati di farmele pervenire, grazie). Uno di quei film tra il coming-of-age e il tedio e i piccoli orrori dell’America pià profonda e sprofondata. Anche, un high-school movie con abbondanti competizione e tensioni tra maschi riusciti e maschi sfigati per le più belle donzelle della scuola. Napoleon è stralunato, con pericolosa tendenza alla nerdaggine, l’aria perplessa, vita di famiglia incasinatissima, con una nonna che si dà agli sport estremi e un fratello chat-dipendente. Ci si metteranno di mezzo uno zio, un amico, una ragazza, anzi due. La grande arena in cui tutte le tensioni precipiteranno e tutti si confronteranno e scontreranno saranno e elezioni scolastiche. Cose così, di usuale banalità (fino all’insulsaggine delle volte). Ma oggi, chi si ricorda più di Napoleon Dynamite e del suo interprete Jon Heder?
American Gigolo di Paul Schrader, Rai 4, ore 22,48.
Film leggendario del 1980, che issò di colpo un ancora giovane Richard Gere nella A-List hollywoodiana e consacrò Giorgio Armani come re planetario della moda (Gere indossa solo vestiti suoi, e la scena in cui abbina camicia-cravatta-vestito è ormai storia del cinema e del costume). Film che ha inciso nel sentire e nell’inconscio collettivo globale come pochi, me ne sono reso conto lo scorso mese vedendo al Festival di Berlino un film cineese della sezione Panorama, YU (La notte), in cui il protagonisrta rifà la mitologica scena della vestiozione di Gere. Eppure American Gigolo è molto più di questo. Innanzitutto è, se non il più riuscito, il film di maggior successo di quel gran sceneggiatore e regista che è Paul Schrader, uno che volutamente si è sempe tenuto ai bordi del grosso giro preferendo una ricerca molto personale e assai poco mainstream. Studioso di cinema che ama Ozu e Bresson, Schrader ha dichiarato di aver importato in questo film qualcosa dei suoi modelli registici. Anche se, nel binomio bressoniano colpa-redenzione, American Gigolo percorre con maggior decisione i sentieri della colpa. Julian (Gere) è il più ricercato gigolo di Los Angeles, uno che ci sa fare come pochi. Ma qualcosa e qualcuno manda fuori giri la sua brillante routine: una sua cliente muore, e del delitto viene accusato ingiustamente lui. Intanto si innamora di un’altra cliente, infrangendo le regole ferree della professione. Pagherà caro. Senza rendersene conto, Paul Schrader impone attraverso il personaggio di Julian un nuovo paradigma della virilità (o della non virilità) postmoderna, anche della bellezza maschile, e sta in questo la sua epocalità. L’attuale narcisimo maschile di massa, con il suo culto ossessivo del corpo, viene (anche) da American Gigolo..
Shine a Light di Martin Scorsese, Rai 5, ore 0,25.
Martin Scorsese, che sa cosa siano i rockumentary avendone girati e avendoci collaborato (a partire da Woodstock), nel 2008 filma un’esibizione newyorkese dei Rolling Stones nel corso del loro A Bigger Band Tour. Gli arzillissimi 4 nonostante tutte le debosce e le cosacce che hanno fatto e attraversato nella loro vita, sono ancora lì inossidabili a grattare sulle chitarre e saltare sul palco, e il pubblico in delirio. Leggende, ecco. Martin Scorsese registra, rovista nel backstage, strappa qualche dichiarazione, monta con un bel po’ di footage della carriera dei quattro, e frulla il tutto cercando di tenersi lontano dall’agiografia (non sempre riuscendoci, ma mica era facile). Il titolo viene da un track di Exile On Main St., l’album il più maledetto di tutta la maledettissima storia Rolling.