Pubblichiamo la lettera di Silvia B. che ha lasciato la Puglia per lavorare e vivere in Lombardia. Un anno dopo ci racconta la sua Milano.
Milan Cathedral by jjcbaron
Ciascuno di noi ha il suo senso.
Il suo senso preferito, quello attraverso cui conosce e impara le cose, e le fa sue. Il mio è l’olfatto. Gli odori sono per me la bussola in ogni situazione. La prima cosa che ricordo di qualcosa, qualcuno, e l’ultima che dimentico.
Milano ha per me, primariamente, l’odore della stazione centrale. È difficile descrivere l’odore di una stazione, forse, la maggior parte delle persone manco se n’è mai accorta che la stazione profuma.
La stazione centrale è stata la prima cosa che ho visto di questa città, scendendo dal mio Eurostar il nove gennaio del duemiladieci, con tre valigie cariche di vita passata e due genitori carichi di angoscia.
E ho subito fatto un respiro profondo: la location non era di quelle che ti mettono proprio voglia di chiudere gli occhi e perderti nel paradiso sensoriale, ma ho pensato che sarebbe rimasto in me il ricordo di quel momento a vita, volevo celebrarlo a modo mio. Due secondi e avevo la ricetta: la stazione centrale di Milano sa di polvere, lavoro, addii, valigie colorate e vecchie.
Da quel momento ad oggi, è stato un continuo ed incosciente capitalizzare questa città, succhiarne il midollo, lasciarsi invadere le vene del bene e del male che le compete. Io penso che non ci sia un’altra città al mondo come questa, nonostante ne abbia viste troppo poche, nonostante sia l’unica in cui ho scelto di vivere dopo la mia casa, ed abbia pertanto pochi termini di paragone, quello che c’è a Milano, come diventi dopo aver vissuto a Milano, non si ripete in un altro posto.
Imparo subito il secondo odore: la nebbia. Mi trasferisco a gennaio, nel cuore di uno dei soliti freddi inverni milanesi, e mi aspetto il peggio, sono pronta a tutto, mamma mi ha portato in giro per tutti i negozi di Bari e provincia per un mese e mezzo solo per essere sicura che fossi ben coperta “che a Milano fa freddo e non ti puoi ammalare”. E con il mio piumino blu, sciarpa guanti e cappello, sono pronta alla conquista di non so bene ancora cosa. La fermata del 14, anzi, della 14 come dicono qui, è stato il posto in cui ho fatto amicizia con la nebbia. Oggi come stai, nebbia? Che mi dici, mentre ostinata deragli i confini delle foglie marroni di un albero? La nebbia ha un odore anche lei, come la stazione centrale, sa di attesa di ricompensa.
Quando sei lì, senza troppe aspettative su una giornata qualsiasi, a miglia e miglia dal “tuo” mondo, con la lista dei doveri nella tasca sinistra e camel light in quella destra, la nebbia profuma di “ok, adesso sono qui a non migliorare certo la situazione, ma ci sono per lasciare il posto al sole tra un pò”. Milano funziona un po’ come la nebbia. Qualsiasi cosa accada, si ha l’intima certezza che, per forza di cose, ad una giornata storta segue una un po’ più dritta. Milano città bastarda, per chi viene dall’universo parallelo Sud. Dovrebbero scriverlo in Centrale. Non perché sia tutto diverso dalle tue abitudini e costumi, ma perchè è l’opposto. Ti devi resettare e ripartire dimenticandoti il cognome, ti devi reinventare.
Rappresentativo della città, il favoloso mondo ATM. Mi ero preparata psicologicamente anche a questo, non avevo proprio nessuna voglia di arrivare e fare la terrona che si fa calpestare in metro. Eh no, non starò con gli occhi sgranati a imbambolarmi davanti a centinaia di persone che lottano per la vita. Perché sembra proprio questo, una lotta alla sopravvivenza, gente che si supera da ogni lato possibile, sguardo dritto verso l’obiettivo, la meta, nient’altro. Io, la meta.
Io invece, ogni tanto, ad un anno di questa stanca routine, mi concedo ancora il prezioso lusso di disegnare. Con lo sguardo, in metro, lì dove le linee si incrociano e Milano coordina le sue infinite distanze, io disegno con gli occhi tutte le croci che le persone fanno incrociando i loro percorsi.
Nonostante avessi ripetuto bene la lezione a casa, alcuni aspetti della vita ATM di Milano mi hanno arrecato non poche difficoltà. In primis, una mera questione logistica. Far scendere prima di salire. A Bari si sale sull’autobus, punto. Che te ne frega di chi deve scendere, tu devi salire, questo conta. A Bari non si teme il contatto fisico. Se il bus è pieno, e salendo ti sfioro un braccio è una cosa normale. Qui, no. È tutto ordinato, ha una sua logica e nessuno la converte mai. Il mezzo pubblico è il posto in cui i milanesi danno il meglio del peggio di sé. L’idea è sempre quella: devo arrivare dove devo arrivare. La gente che non si conosce, non interagisce, non parla, quindi non si conosce. A Bari tempo due volte che incroci la stessa faccia sullo stesso mezzo alla stessa ora che già sai quanti fratelli e sorelle ha, cosa fa nella vita, dove sta andando e perché.
Unica fonte di socialità, lo sciopero. Lo sciopero ATM funziona a Milano da collante, per pochi preziosissimi ed imbarazzatissimi secondi. Una dinamica fin troppo semplice, uno sbraita – l’altro lo guarda complice. Pum! Interazione non funzionale; poi ognuno guarda nella sua direzione, come una coppia che non ha più niente da dirsi.
C’è anche la corsa al posto. Milano è fortemente meritocratica in questo: chi corre meglio prende il posto. Non esiste la gentilezza, il parametro. Io giovane sono seduta, entri tu vecchia. Ed educatamente, così come mamma e papà mi hanno insegnato di fare, ti offro il posto. Sguardo in cagnesco, manco avessi provato a fregarti la borsa, o ti avessi detto cattive parole. A Bari, se sale una signora anziana, si mobilita tutto il bus fino a che non è seduta. Piuttosto la malcapitata viene rincorsa e seduta di forza, ma in piedi non ci rimane.
Una delle cose meravigliose, che ho apprezzato immediatamente, perchè a casa mi è sempre mancato soprattutto in certi momenti, è l’anonimato. Sali su una metro milanese, a qualsiasi ora, qualsiasi linea. Non sei nessuno, nel senso proprio che non esisti. In metro puoi fare due cose fantastiche che a casa mia non potrei mai permettermi: cantare, e piangere.
Nessuno ti guarda, o se lo fa dura così poco che non hai tempo di accorgertene. Nessuno ti dice niente. Niente, un numeretto dentro il sacchetto della tombola, per citare una canzone. Una cosa tra le cose, che tu pianga da solo, che tu canti come un fesso, a nessuno gliene frega niente. È vero, ci sono quei momenti in cui ti manca quella facilità che non appartiene a questo mondo, ma a volte, questo essere di plastica ti fa sentire un senso di libertà… che paradossalmente anziché spersonalizzarti, ti ricorda sempre meglio chi sei.
Il senso del pudore acquista un altro valore. A Bari mi vergognerei come una ladra se piangessi su un autobus, o se cantassi la canzone che ho nelle cuffiette. Qui non ti vergogni, perché non hai osservatori.
E… “a Milano, trovi tutto”. “Milano offre tanto”. “Milan l’è un gran Milan”. Io pensavo di venire a vivere in un posto dove le persone erano tutte uguali, vestite tutte alla moda, fatte con lo stampino. Vengo qui a scoprire che a Milano, ti vesti come cavolo vuoi. E vedi di quelle cose…
Dopo un anno, posso dire di aver riassunto le specie più ricorrenti in dei cluster, ma resto ancora stupita della straordinaria varietà di stile che incontro quotidianamente.
Facciamo subito fuori i punk, i rocker, le modelle, le gne-gne, i ricchioni, le sciure. Sono i cluster più scontati, i già noti.
Due categorie mi fanno morire dalla voglia di parlarci: le donne con pettinature assurde, che sembrano uscite da un’altra era, con dei colori altrettanto immondi, e quelli che ho rinominato “businessman”.
Sono personaggi sui quaranta, sempre vestiti di grigio o di blu, o al massimo di nero. Hanno in genere un cappotto che vale tutto il mio armadio, una ventiquattrore, il blackberry. Hanno fatto anche l’asilo in Bocconi, e la loro madre ancora gli lava le mutande. Alla soglia dei trentacinque, hanno raggiunto un discreto livello manageriale e tengono al caldo del garage del loro ego tradito una bella macchina aziendale. Ora scivolano sugli specchi del non senso, e l’eccesso di dopobarba che senti quando gli passi accanto profuma di complesso d’impotenza. Come fai a non cantare “uomini soli” dei Pooh quando li vedi?
La gestione del tempo libero è una delle cose che ci dice di più su di noi.
Perchè quando hai tutto organizzato, 9:00 lavoro – pausa pranzo – lavoro – casa, e di nuovo domani, non c’è molto da scegliere. I milanesi non sanno cosa vuol dire scegliere. Se ne vanno nel pallone. Non lavoro. E ora? Il sabato milanese è un surrogato di domenica del sud, per quel senso di leggerezza che trascina con sé il primo giorno di festa dopo una settimana di lavoro. Il sabato a Milano si fa la spesa, si va in lavanderia, si fa shopping, la sera un “ape”.
La domenica, bella domanda.
La domenica non esiste.
Per me, cresciuta al Sud, la domenica è sveglia, colazione in famiglia. Casa, messa, pranzo in famiglia. Pomeriggio in famiglia. Sera in famiglia. Con tutta la famiglia. Media: venti persone. Chi ha detto cosa a chi, quali sono le ultime novità, quale cugino ancora non si è laureato e perché, come mai la zitella è ancora zitella, mangia che devi crescere, non alzarti da tavola se non hai finito, ma quand’è che ti fidanzi così ti sposi. Questa è la domenica.
È quel legittimo perdere tempo, che qui è spreco. È quell’unico obiettivo di stare insieme. Tutti insieme, attorno a un tavolo, ad assorbire calorie a migliaia. Il senso della famiglia. Dell’unità.
A Milano, i centri commerciali la domenica sono tutti pieni. È lì che vanno le famiglie, a nuclei di quattro. Quando siamo in quattro “giù”, diciamo che “oggi stiamo soli”. Qui invece quattro è già gruppo, e il tempo lo si ammazza riscaldati dall’aria artificiale tra Motivi e Max&Co.
Tante volte uno si ferma, e il significato di questa giostra gli sfugge. Qui manca il rumore del mare, il profumo dell’aria.
Però c’è quella sera, magari verso maggio, quando non è ancora estate, e non è più inverno. Quella sera che la mattina hai fatto una conquista, che tutto il mondo gira con te, che tutti i link con gli universi paralleli di cui non capisci più la lingua ti hanno solo sorriso. Quella sera che non guardi l’orologio, che respiri più forte, che senti più profumo. Quella sera che non sai manco come sei arrivato davanti al Duomo, e la sua grandezza ti fa sentire così piccola e semplice. Quella sera con la testa leggera.
E stai bene davvero.
Quella sera che non sembra più Milano.