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I missionari del dio mercato

Creato il 09 dicembre 2013 da Keynesblog @keynesblog

11dicdi Daniela Palma e Francesco Sylos Labini (Left 7.12.2013)

La crisi economica è giunta al suo sesto anno e, soprattutto in Europa, ancora pochi sono i segni di un suo arretramento. La ricerca di una via di uscita s’impone con sempre più urgenza, ma le contraddizioni che hanno scatenato la crisi continuano a mettere in discussione l’intero periodo che ha segnato lo sviluppo economico del secondo dopoguerra. L’irruzione sulla scena dei debiti pubblici ha mascherato le fragilità del sistema finanziario privato – vero responsabile della crisi – che per troppo e lungo tempo ha drogato il mercato, incapace di autosostenersi. Così, senza esitazione, il dito è stato puntato contro lo “Stato spendaccione”. E l’“austerità espansiva” è sciaguratamente diventata la chiave di volta delle politiche per la ripresa, riaffermando la posizione di thatcheriana e reaganiana memoria. Quella secondo cui “lo Stato è il problema”. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: una nuova e più profonda depressione, l’azzeramento delle prospettive di ripresa e lo spettro di dover fare un balzo all’indietro, cancellando di colpo decenni di storia in cui il progresso economico è stato reso inscindibile dalla conquista dei diritti sociali e dal radicamento della democrazia.

La verità è che lo Stato è diventato una stampella del mercato, senza però assolvere a un ruolo costruttivo per lo sviluppo dell’economia e della società. I bilanci pubblici sono esplosi per salvare le banche, senza per questo riuscire a recuperare le sorti dell’economia reale, visto che il credito rimane “congelato”: malgrado ciò si continua ad affermare che la zavorra dell’economia è rappresentata dal welfare, e che bisognerà rinunciarvi, pena l’impossibilità di dare spazio alla ripresa.

Per capire la crisi bisogna andare oltre. Oltre il quadro teorico del neoliberismo – trasmessoci dall’alto e acriticamente accettato. Andare oltre il neoliberismo, significa innanzitutto riconoscere le ragioni culturali della crisi. Un po’ meno austerità forse ci sarà concessa, ma se non si dà una lettura corretta delle vere cause che hanno portato alla crisi, essa sarà destinata a riprodursi in forme sempre più drammatiche e sempre più tendenti a compromettere lo sviluppo dei Paesi e la loro coesione sociale.

Il modo con cui la riflessione economica prevalente si è rapportata alla crisi fin dal suo nascere è tipico della visione mainstream, che affonda le sue radici nei riferimenti principali della cosiddetta teoria neoclassica: l’economia è concepita come una scienza (economics) che studia le scelte alternative tra risorse scarse; il mercato è il luogo di allocazione ottima delle risorse, garantita da soggetti razionali in grado di utilizzare tutta l’informazione disponibile. Nel mercato si determina “naturalmente” un equilibrio che è il punto d’incontro tra domanda e offerta, stabilito nel prezzo, inteso come misura della scarsità, capace di assicurare l’allocazione ottimale delle risorse. Un processo che è di tipo esclusivamente logico, che prescinde totalmente dalle diversità nel tempo e nello spazio delle diverse economie. Secondo questa lettura eventuali scostamenti dall’equilibrio del mercato hanno solo natura temporanea perché il sistema economico è destinato a convergere verso l’equilibrio. In tale contesto la crisi non può essere prevista, semplicemente perché non è neppure concepita. Ed anche di fronte al suo manifestarsi è possibile attribuirle un carattere di momentanea accidentalità, oppure individuare imperfezioni del mercato che non consentono il raggiungimento dell’equilibrio. Le crisi possono essere innescate solo da grandi perturbazioni esogene come gli uragani, i terremoti o sconvolgimenti politici, ma certo non causate dal mercato stesso.

Molti economisti hanno, infatti, interpretato la crisi del 2008 attraverso il pregiudizio ideologico secondo cui essa è stata innescata da cause del tutto imprevedibili – come il fallimento della Lehman Brothers – ma giacché i mercati liberi tendono alla stabilità, non ci sarebbero dovute essere ripercussioni sull’economia reale. È questo paradigma che deve essere messo profondamente in discussione, perché la crisi del 2008 ha mostrato in maniera spettacolare che sono le fluttuazioni stesse dei mercati a generare instabilità: i mercati liberi non tendono all’equilibrio ma generano squilibri selvaggi e pericolosi.

Dunque, l’economics si traveste dietro una veste pseudo-scientifica, si presenta come una disciplina tecnica e apolitica. Ma non è stato sempre così. Anzi, secondo la visione che ha segnato lo stesso nascere della disciplina economica e che si afferma all’indomani della prima Rivoluzione industriale con il pensiero di Adam Smith, l’economia è invece una riflessione scientifica sulla società, tesa a studiarne le caratteristiche che ne assicurano le condizioni di riproducibilità e di sviluppo, in un contesto sociale, istituzionale e normativo che condiziona l’azione dei soggetti. Non a caso si parla di “economia politica”, guardando al mercato come a un complesso sistema di norme, storicamente determinato e privo di qualsiasi connotato di naturalità, non necessariamente capace di assicurare il pieno impiego delle risorse. L’approccio dell’economia politica classica è dunque intrinsecamente predisposto a concepire il prodursi di crisi e la necessità di operare quei correttivi che assicurino la riproducibilità del sistema economico. Di là dalle diverse versioni ed approfondimenti che si sono succeduti passando per Ricardo, Marx e arrivare fino a Keynes, la visione dell’economia politica resta ancorata a una rappresentazione del sistema economico in cui la dimensione delle classi sociali e la diversità di interessi che a queste si associano ne determinano un assetto fondamentalmente instabile.

Invece nella visione neoclassica mainstream è assente un qualsiasi ruolo della politica. La predominanza trentennale di questa visione ha tuttavia prodotto una specifica egemonia culturale, dura a morire, nonostante il perdurare della crisi. La visione mainstream appare dotata di un’intrinseca capacità di sopravvivenza: il sistema economico, inteso come dato di natura suscettibile di essere studiato con il metodo delle scienze naturali, porta ad escludere l’esistenza di qualunque alternativa con la quale confrontarsi. La visione mainstream è fatta di assiomi. Le uniche discussioni ammissibili sono quelle condotte entro la propria cinta concettuale.

La lettura della crisi e le terapie per superarla continuano pertanto a essere appannaggio degli economisti mainstream. Con la possibilità, peraltro, di condizionare l’opinione pubblica e di creare consenso a proprio favore. A questo proposito Luciano Gallino, Giorgio Lunghini, Guido Rossi e altri hanno recentemente denunciato quella che è, a loro avviso, una gravissima distorsione della realtà da parte dei principali media del Paese: «La politica è scontro d’interessi, e la gestione di questa crisi economica e sociale non fa eccezione. Ma una particolarità c’è, e configura, a nostro avviso, una grave lesione della democrazia. Il modo in cui si parla della crisi costituisce una sistematica deformazione della realtà e un’intollerabile sottrazione di informazioni a danno dell’opinione pubblica. Le scelte delle autorità comunitarie e dei governi europei, all’origine di un attacco alle condizioni di vita e di lavoro e ai diritti sociali delle popolazioni che non ha precedenti nel secondo dopoguerra, vengono rappresentate come comportamenti obbligati immediatamente determinati da una crisi a sua volta raffigurata come conseguenza dell’eccessiva generosità dei livelli retributivi e dei sistemi pubblici di welfare. Viene nascosto all’opinione pubblica che, lungi dall’essere un’evidenza, tale rappresentazione riflette un punto di vista ben definito (quello della teoria economica neoliberale), oggetto di severe critiche da parte di economisti non meno autorevoli dei suoi sostenitori».

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Legenda: Abbiamo  considerato la lista dei professori di economia politica, che erano 704 nel 2008, e per ognuno abbiamo contato quanti articoli hanno scritto su La Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Sole 24 ore e La Stampa negli ultimi 5 anni e precisamente dal 1 gennaio 2007 al 31 dicembre 2011 (per questo abbiamo utilizzato l’archivio della Camera dei Deputati). Per capire le relazioni tra i diversi autori è interessante misurare il loro grado di connessione. A questo scopo abbiamo usato Repec che è il più grande database bibliografico di economia disponibile gratuitamente su internet. Abbiamo dunque costruito il grafo seguente, mettendo una connessione tra due diversi autori se sul database Repec compare almeno un articolo scientifico in cui sono coautori. Le connessioni in rosso se due autori sono coautori di articoli su quotidiani. (Fonte originale)

Il nuovo e vincente attore nella politica internazionale è dunque l’estrema destra economica che ha finalmente rimpiazzato il vuoto dell’estrema destra politica. In Italia l’estrema destra economica ha riempito il vuoto politico cercando di sovvertire la Costituzione nei suoi tre punti fondamentali: rimuovere ogni controllo alle decisioni del settore privato, togliere al governo dei cittadini il controllo e la responsabilità della spesa pubblica con il vincolo del pareggio del bilancio e tagliare i diritti dei lavoratori. Nella confusione politica generale che stiamo vivendo, le idee dell’estrema destra economica hanno permeato i partiti di centrosinistra in tutta Europa. Nel vuoto generale d’idee, spesso artificialmente indotto, questa lobby di pensieri prefabbricati cerca dunque di vendere a una politica ormai priva di contenuti la soluzione liberista come l’unica possibile, spesso falsando i dati e manipolando la realtà. La battaglia culturale è dunque intrinsecamente legata a quella politica: senza un punto di riferimento culturale l’azione politica rimane alla mercé di chi è più organizzato per manipolare l’opinione pubblica.  Ed è proprio questa la battaglia che bisogna intraprendere a partire dalla nostra Costituzione e dal ruolo fondamentale che essa assegna all’attore pubblico: quello di essere artefice di una “programmazione” economica mirata alla piena e buona occupazione e per una società giusta e democratica, capace al tempo stesso di farsi interprete delle domande più urgenti poste dalla storia e del tempo presente.


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