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I miti da distruggere: infilare tutto nella storia

Da Marcofre

Uno dei tanti miti che affliggono una storia sino a ucciderla, è l’idea che ci si debba infilare tutto. Ma proprio tutto.
Può sembrare un post inutile, eppure uno degli errori più marchiani che vengono commessi ancora adesso dagli aspiranti scrittori è prendere un evento, e infilarlo completamente nella pagina.

Il risultato risponde al nome di “sbadiglio”. Non è un caso se Flannery O’Connor invitava gli esordienti a osservare; a praticare la pittura oppure la fotografia.
La prima lezione che si impara fotografando, è che la macchina fotografica è meno importante di quel che si crede. Se non sei un professionista, non hai bisogno di qualcosa di potente, e costoso. Ma solo di uno strumento che ti permetta di muoverti con agilità.

Dopo forse avrai tutto il tempo per evolvere e diventare bravo; ma agli inizi (inizi che devono per forza durare molto a lungo), le questioni tecniche possono essere lasciate da parte. Perché nella fotografia, come nella pittura o nella scrittura, l’essenziale è scegliere cosa scartare, e cosa metterci. E non di rado quello che resta fuori regala una misteriosa forza a ciò che si fissa sulla pagina.

Prendiamo Carver, una delle mie scoperte più recenti. Nelle storie racchiuse in “Cattedrale” non abbiamo a che fare con persone importanti, o eventi che fanno la Storia. Al contrario. Ci sono furgoncini che si mettono in moto facendo contatto coi fili che penzolano sotto il cruscotto; pavoni che fanno la ruota; uomini e donne che bevono senza sosta.

Qualcuno liquida la faccenda parlando di “minimalismo”. A me non dispiace come definizione, ma purtroppo ha assunto una connotazione negativa: come se scrivere delle persone, dei loro guai, dei banali salotti di casa dove siedono, e più spesso litigano, fosse dopotutto un’esigenza bislacca, e da condannare.

Le lunghe descrizioni prima di arrivare al dunque, ottengono solo l’allontanamento del lettore. Non desidera esplosioni, o colpi di scena a ripetizione. Vuole che la storia sia raccontata con efficacia, e risulti interessante. Una valanga di dettagli, un lungo elenco di caratteristiche, non sono letteratura, bensì la lista della spesa.

Il difetto di tanta scrittura è proprio questo: l’autore ha gettato giù un’enorme quantità di cose, ma si è dimenticato di scegliere le più importanti. Di deciderne la priorità. Sulla pagina, non puoi scaraventarci tutto, non si tratta di riempire lo spazio bianco. Lo so che Dumas allungava il brodo, ma non sei Dumas, e nessuno ti paga o ti pagherà mai a righe.

Questo modo di scrivere si presta a due equivoci. Il primo: che ci vuole? Il secondo: visto che si tratta di minimalismo allora anche quello che accade a me è materia per ottima narrativa.
Non è affatto così. La semplicità di Carver è il risultato di lunghe riscritture, riletture sue e dell’editor. “Lunghe” vuol dire non un paio di minuti: ma settimane passate su una pagina.

Inoltre quello che accade a te non è affatto ottimo: lo può diventare solo se tagli, squarti e sezioni. E più senti le grida, più vedi la tua creatura supplicare pietà, chiedere compassione, rantolare, sfuggire, dibattersi, più tu devi calare l’ascia. Quei meravigliosi pezzi che saltano via. Il sangue che scorre. Non avere paura: è quando elimini che inizi forse a muoverti nella giusta direzione. I dilettanti scrivono; i professionisti incidono senza anestesia.

Quindi? Fotografa; dipingi. Impara a scartare, individua la parola più potente della frase, del periodo, e lavora non per renderla più corposa, ma più efficace. Scoprirai che spesso gli aggettivi sono un di più; che gli avverbi appesantiscono il periodo; che un sinonimo può creare un piccolo miracolo.

Impara a considerare il tempo il migliore alleato per la scrittura.


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