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Se penso che alla sua stessa identica età io ho deciso di concepire Amelia, mi viene un po' da sorridere: chi dei due avrà avuto ragione? Naturalmente io, e una delle cose che mi dispiacciono di più è che non posso dimostrarglielo. Perché la fregatura di essere morto è che poi i vivi possono dire quello che vogliono, ma tu non puoi ribattere: chi è morto non ha mai ragione, perché il suo punto di vista è morto con lui.
Per esempio, se lui fosse vissuto, avrebbe curato personalmente la propria mostra. Io ci sarei andata con Amelia e Luca, anche solo per curiosità, e magari saremmo potuti finalmente diventare amici, senza il minimo rancore.
Cesare non era di quegli ex che non frequenteresti più neanche sotto tortura. Non era neanche un ex, per cominciare: la mia grande passione per lui è sempre stata incorrisposta, anche se ci sono stati margini di ambiguità agli inizi. Poi lui ha scoperto che le donne non facevano per lui, io ne ho molto sofferto fino al momento in cui ho preferito troncare i nostri sporadici contatti, chiedendogli di non cercarmi più.
Non ho più pensato a lui per molto tempo, in cui nel frattempo sono passata dall'essere una liceale al gestire un piccolo team di web design: insomma, quegli anni che sono pochi di numero ma pesano ognuno come un decennio. Anni in cui mi sono fidanzata, mi sono quasi sposata, mi sono mollata e ho fatto la bella vita.
In quegli anni, l'ho sporadicamente incrociato da lontano e ogni volta ho pensato alla mia perdita (puramente fisica, lo ammetto) e non alla sua, che aveva perso una delle sue poche amicizie. Lo consideravo un privilegiato un po' sprecone, il figlio piccolo dell'avvocato che, non avendo avuto voglia di studiare, andava a fare il segretario da papà per non dare l'impressione di farsi mantenere completamente.
Sapevo delle sue velleità letterarie, che dentro di me schernivo, ma non sapevo nulla delle sue capacità artistiche. Credevo che la sua malinconia e il suo ritirarsi dalla realtà fossero pose da artista maudit. E invece.
Invece un giorno passo davanti a uno di quei manifesti funebri sulla strada e vedo ben in grande il suo nome. Mi fermo (in mezzo alla strada, ma con le quattro frecce) e leggo l'età per essere sicura, anche se sapevo che il nonno da cui prendeva il nome era già morto. Ho subito pensato a un suicidio.
Ho poi scoperto che, se non fossi stata impegnata a correre tra il lavoro e gli aperitivi milanesi, avrei saputo la notizia da un pezzo: la Provincia Pavese (indegno quotidiano di provincia che la mia famiglia non legge) aveva pubblicato la notizia con ampio risalto e la buona società pavese aveva parecchio chiacchierato di questo figlio di avvocato che si spara. Pian piano, un po' per caso un po' con intenzione, ho raccolto qualche testimonianza sui suoi ultimi tempi: la depressione, la solitudine, la sensazione di impotenza. Probabilmente i suoi familiari, anche se preoccupati, avevano pensato un po' al solito copione, altrimenti il padre non avrebbe tenuto in casa una pistola.
Dico la verità: sapere che Cesare si era ucciso non mi ha mai tenuta sveglia di notte. Però è tuttora un fastidio, una cosa su cui rimuginare. Dopotutto, da un pezzo io ero guarita da lui e mi sarebbe bastato così poco per riallacciare i rapporti, tendergli una mano, anche solo farci quattro chiacchiere: le concedo a chiunque, perché a lui no?
Ero un po' arrabbiata con lui, avrei voluto andare sulla sua tomba e dirgli: vedi? Non hai concluso un cazzo, ad ammazzarti. A meno che non ti piaccia riposare in eterno sapendo che i tuoi non si perdoneranno mai.
Oggi sono un po' meno arrabbiata, a parte quando la guardo dalla prospettiva di madre e mi immagino che cosa deve aver provato quella povera donna a tornare in casa e trovare quella scena in salotto. Allora sì che mi prende una rabbia immensa per questo figlio egoista ed esibizionista, che poteva quietamente buttarsi da un ponte.
Oggi penso che la mia perdita è non avere un amico un po' strano, con cui Luca si sarebbe trovato benissimo perché tra svaporati ci si intende. Peccato.
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