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I nonni decurtati

Da Fernando @fernandomartel2
Avevo poco più di sei anni, quando da bambino sono rimasto
orfano di padre.
Le mie piccole certezze sono state liquidate, in quel momento,
in una frazione di secondo ed io mi sono sentito, immediatamente,
sospeso nel vuoto: ho odiato il mio destino e la morte.
Negli anni successivi, quando ripresi, in qualche modo, a
credere che quella mia “normalità” fosse, in ogni modo, una vita,
notai che molti dei miei compagni di scuola e di giochi, oltre ad
essere più fortunati di me, giacché avevano ancora entrambi i
genitori, avevano anche altre figure adulte vicine: i Nonni.
Alcuni n’avevano addirittura quattro: paterni e materni e,
qualche volta, dei bisnonni.
I loro Nonni abitavano, magari, in zone diverse del paese e
questo mi dava la sensazione che quella famiglia avesse radici
estese sull’intero territorio che noi bambini, usavamo per i
nostri giochi e per la crescita. Quella sorta di dominio del paese,
faceva sì che il piccolo di quella famiglia, avesse sempre gli occhi
di qualcuno che lo controllasse, una voce pronta a richiamarlo
quando stava per correre un rischio o fare qualcosa di sbagliato,
qualcuno pronto ad intervenire in caso di necessità. Perfino
l’assenza di un qualsiasi intervento aveva un significato: il loro
piccolo non stava facendo niente di pericoloso o d’errato. Doveva
essere bello crescere con la sensazione d’avere più di un angelo
custode ed un pronto intervento tutto per te. Qualche volta, il
pargolo, beccava uno scappellotto che, senza tante storie, gli
faceva capire immediatamente cos’era il bene ed il male. In quel
caso io mi ritenevo più fortunato di quelli che avevano Nonni e
parenti così presenti, ma loro crescevano meglio, più equilibrati.
Ogni volta che mi capitava di accompagnare qualche mio
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Il vento racconta...
compagno in visita presso questi parenti, non poteva mancare
di notare, con quanta serenità e padronanza di gesti lui si
muovesse nella loro casa. Pareva padrone assoluto di un territorio
che gli si concedeva senza opporre nessuna resistenza. I
Nonni sembravano un comitato d’accoglienza festoso per quel
mio amico e, ogni tanto, io stesso beneficiavo di qualche attenzione,
una carezza e magari, una fetta di pane col pomodoro, o
con olio e zucchero. La mia fetta era magari più piccola e meno
condita, ma sempre ben accolta.
I Nonni, erano pieni d’attenzioni per il mio amico, gli facevano
un sacco di domande sulla scuola e di raccomandazioni sulla
pericolosità di certi giochi. La Nonna ridava una pulitina al
nipote, gli sciacquava la faccia sporca ed il collo sudato con un
lembo dell’asciugamano bagnato, rimetteva a posto la camicia
nei pantaloni, le bretelle incrociate male, curava qualche graffio
o un ginocchio sbucciato e poi, magari, gli dava dieci lire per
il gelato.
Il Nonno intanto gli parlava da pari a pari, lo chiamava
soddisfatto per nome, pomposamente, come se il mio piccolo
amico fosse un principe. Faceva con lui, i piani per fare un giro
col calesse in campagna, a raccogliere della frutta alla vigna, a
trovare il suo amico cane alla masseria. Il nipotino dava il suo
consenso a tutte le proposte, sembrava essere lui quello che
decideva, doveva sentirsi un re: il depositario di chissà quale
potere di farli felici per il sol fatto di esistere. Non lo capivo
perfettamente allora, ma percepivo che lui era il loro futuro:
l’eternità.
I Nonni erano la sua assicurazione sulla qualità della vita; i
vigilanti dell’integrità e supervisori del suo benessere. Erano
pure quelli che gli compravano il triciclo.
Il bambino cresciuto in una famiglia ricca di figure parentali
e diffusa sul territorio, aveva molti occhi addosso, tanti affetti
cui attingere, ma quei freni inibitori servivano a censurarlo e a
farlo vivere, nella coscienza di prestare attenzione a quello che
faceva, tanto un parente, uno zio, un nonno che lo riprendesse
nel caso del bisogno o, almeno, che glielo avrebbe detto ai
genitori, si trovava sempre dappertutto.
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Fernando Martella
Poi, con la diminuzione della prolificazione delle famiglie e
con quell’assurda pretesa dei giovani sposi, di realizzare tutta
la loro attesa d’eternità, in una coppia di figli: un maschio ed
una femmina, cominciarono a diminuire le figure importanti
alle quali, un piccolo cucciolo d’uomo, potesse rifarsi. Sono
spariti del tutto gli zii. I pochi nati da famiglie con ancora più
di due figli, spesso sono emigrati in altri luoghi e quindi, la
parola zio o zia è diventata magari riferita a coloro che vivono
in altre città. Quelli che, al massimo incontriamo d’estate nelle
vacanze o durante le feste natalizie, portatori magari di bei
regali, ma non più di messaggi educativi.
I Nonni invece, sono rimasti al paese, ma non hanno più
quella loro funzione educativa. Sostituiti dalle badanti e da
televisione, videogiochi e computer, oggi hanno, in famiglia, un
ruolo puramente decorativo.
Ho incontrato frotte di Nonni (i paesi da dove si è emigrati
sono pieni d’anziani) seduti sulle panche in piazza o lungo il
corso, con un unico compito: quello di attendere l’ora del pranzo,
per vederli alzarsi e dirigersi verso casa, da dove ripartono dopo
la pennichella nelle ore meridiane, per risedersi allo stesso
posto col medesimo compito – attendere la sera e con lei l’ora di
cena.
Nonni senza più quello scopo censore e educativo, dimezzati
nella loro funzione: decurtati.
I nipoti sono lontani, nati dai loro figli emigrati nelle città
del nord, dove, perfino se loro li seguissero, non troverebbero
più il vecchio compito. I ragazzi oggi, sono piccole prede,
sequestrati da aggeggi elettronici e figure diverse, ma che non
sono alternative ai Nonni, i quali non sono stati esautorati da
qualcun altro, ma hanno esaurito il loro compito per mancanza
di nipoti caratterizzati con la stirpe, con la loro discendenza.
Loro non hanno più neanche la sensazione che con l’arrivo di
un nipote, si siano conquistati quel profumo d’eternità che gli
garantiva il chiamarli con il loro nome e cognome.
Intere nomenclature che si sono ripetute per generazioni,
riecheggiando nei secoli e che facevano del piccolo Francesco un
“ Franchino” fino alla fine del vecchio Nonno Francesco, padre
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Il vento racconta...
di Giuseppe che aveva un nipote che si chiamava Peppino e che
avrebbe avuto un figlio di nome Francesco da grande e così via,
fino all’arrivo dei Victor, Michel (si pronuncia Maicol o Miscel)
e degli Jmmi (Gimmi), nomi senza echi nella nostra cultura.
Oggi, con il divorzio così diffuso e praticato, le giovani
famiglie si smontano e si ricompongono troppo facilmente. Ai
Nonni sono tolti i nipoti e proposti figli acquisiti come discendenti,
è chiaro che questi, per quanto possano essere amati, non
saranno mai la loro eternità.
Mi sono fermato a parlare con loro, nello scambiarci vicendevolmente
notizie sugli anni nei quali, a causa della mia emigrazione,
non ci siamo più visti, gli ho raccontato che stavo per
diventare Nonno anch’io, nei loro occhi c’era una luce mesta,
quasi triste: “Ho tre nipoti…” mi diceva Angelo, uno che,
ritornato a vivere dove è nato dopo una vita da emigrante in
Belgio, Francia, Germania e Torino, ha visto dopo poco tempo,
partire i propri figli per il nord “…una bellissima bimba in
provincia di Como e due fratellini, un maschio ed una femmina,
in provincia di Pavia…vengono due settimane l’anno in
vacanza…oggi non ci sono più i nipoti di una volta…” Poi ha
ripreso a masticare i suoi pensieri in viaggio verso volti che,
quando rivedrà, saranno mutati.
Dopo che è ritornato, ha aperto in paese un negozio d’antiquariato
e, per pagare la nostalgia dei nipoti, ha disegnato nella
sua insegna fuori del negozio, delle stelle, nelle quali ha fatto
stampare le iniziali dei nomi dei nipoti.
In quasi tutti c’era disinteresse alla mia eccitata comunicazione,
quasi a rilevare in coro una domanda: “Diventi Nonno…e
che non vorrà mai dire?” Uno di loro, Cenzino, la faccia piena di
rughe evidenziate di più da un’abbronzatura che lo fa sembrare
di cuoio, quasi come il suo vestito marrone di velluto a coste,
segno di uno che non è mai emigrato dal sud, ha guardato prima
da una parte poi dall’altra di lato, prima a destra poi a sinistra
e poi, in un silenzio pieno di sguardi puntati sul sottoscritto, mi
ha detto “C’è ancora posto…”
Un coro di risatine amare ha accentato la frase.

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