Sono i nuovi schiavi del terzo millennio, esseri umani senza diritti e senza voce dei quali continua ad avere un gran bisogno l'economia del nostro Paese ma pure quel mondo sommerso e nero gestito dalla criminalità organizzata. Dopo i noti fatti di Rosarno, ci si è resi conto che quasi il 19% di Pil italiano è di provenienza irregolare quando non addirittura illegale. Basato sul lavoro di figure "ultraflessibili", che non hanno nè possono rivendicare diritti. E che, da qualche tempo, sono gravate anche dall'introduzione del reato di clandestinità che ha finito per rendere vana la lotta al lavoro nero e al traffico di esseri umani condotta da sindacati e associazioni di volontariato.
A molti immigrati, come rileva ad esempio l'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione, non vengono lasciate molte possibilità di scelta: chi ha avuto un permesso di soggiorno, una volta perso il lavoro ha solo sei mesi per trovarne un altro e per non trasformarsi in "irregolare di ritorno", che certamente non vuol lasciare l'Italia perché magari ha portato qui la sua famiglia. Stessa sorte tocca spesso anche alla categoria dei "rifugiati", quelli che almeno in teoria dovrebbero godere di maggiori garanzie. Perchè nel nostro Paese non esiste una normativa che preveda esplicitamente un percorso per il loro inserimento sociale. Ne deriva che, paradossalmente e proprio come a Rosarno, il 30% dei lavoratori sfruttati in nero sono persone che hanno ottenuto il riconoscimento ufficiale dello status di rifugiato.
Purtroppo, però, in Italia il lavoro nero e irregolare non riguarda solo gli stranieri. Nella nostra economia le medie e grandi imprese delegano il compito di generare occupazione alle micro imprese, che per fare utili sono spesso costrette a spremere la mano d'opera. E così la domanda di chi cerca lavoro incontra l’offerta di chi è disposto ad assumerlo in cambio di salari sempre più bassi e di diritti praticamente inesistenti. A questo va aggiunto l'ostacolo della burocrazia, specialmente per gli stranieri ai quali l'inefficienza e i ritardi della macchina dello Stato possono arrecare conseguenze gravissime, con attese molto lunghe per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno che equivalgono all'impossibilità di emanciparsi da condizioni di vita e giuridiche penosamente precarie.
Secondo le fonti della CGIL, allo stato attuale ci sono in Italia 900 mila lavoratori agricoli con drammatici problemi di legalità, a prescindere dalla razza o dalla nazionalità di appartenenza. Ma lo sfruttamento nelle campagne è una pratica esercitata sul lavoratore extracomunitario in maniera di gran lunga più violenta rispetto a quanto non avvenga su quello italiano, tanto da ridurlo ai margini estremi della società, in luoghi inagibili e privi di ogni servizio igienico e sanitario, dove le istituzioni non arrivano praticamente mai.
E in effetti, come affermano da Medici Senza Frontiere, tutti parlano astrattamente di sicurezza ma nessuno si occupa seriamente di quella, soprattutto per ciò che concerne la tutela della salute, di queste persone. Costrette a vivere in condizioni inumane e lasciate al proprio destino, ammassate dentro fetidi edifici abbandonati. Il più delle volte, si tratta di giovani che arrivano in Italia nel pieno delle forze fisiche e poi si ammalano perchè lavorano per oltre 8-10 ore al giorno per una paga da fame.
È evidente che tra le condizioni di lavoro e quelle di vita deve esistere un legame molto stretto. Perchè è dall'assenza di ogni principio umanitario che deriva tutto il resto, a iniziare dalle tensioni sempre in agguato con le popolazioni locali come già avvenuto proprio a Rosarno o a Castel Volturno. E come potrebbe accadere altrove se questo nostro Paese non si mette in testa che legalità e sicurezza, integrazione e accoglienza sono facce della stessa medaglia.
Al Nord, in proposito, il business degli sfruttati del lavoro nero è già attivo e florido da tempo. Un'indagine de l'Espresso dello scorso anno ha messo in luce un volto della schiavitù tutto milanese e lombardo. Con tentacoli così lunghi da avvolgere perfino l'agricoltura del Veneto, la sanità in Piemonte, la grande industria padana. E con operai messi a lavorare senza stipendio, padri di famiglia minacciati e picchiati dal "caporale" di turno. In tal caso, ed è questa la sorpresa, i committenti di opere e lavori illegali sono non soltanto le famiglie locali della 'Ndrangheta o di Cosa Nostra ma sempre più spesso addirittura gli enti pubblici: istituti di credito, Asl, Aziende municipalizzate.
Ovviamente, la maggior parte di tali derelitti sono stranieri e sovente clandestini. Solo a Milano, sarebbero 8 mila gli extracomunitari costretti a nascondersi perchè le condizioni di lavoro non hanno consentito loro di ottenere o di rinnovare il permesso di soggiorno. Una vera e propria città invisibile, quattro volte più grande di quella composta dagli stranieri ridotti alla fame, spinti alla rivolta e cacciati da Rosarno.
L'attività speculativa della rete di imprese del Nord è stata oggetto del libro inchiesta "Servi", di Marco Rovelli, dove si legge che "Il sistema produttivo italiano aumenta profitti e rendite, ma scarica i costi sui lavoratori autonomi delle microimprese. Opposte a questa nebulosa ci sono le vere imprese, quelle mediograndi. Le quali, secondo un'indagine di Mediobanca del 2006, nel decennio 1996/2005 hanno ridotto ininterrottamente gli occupati, accumulando nello stesso tempo profitti in misura mai così alta nella storia del Paese, determinando lo scarto di reddito tra gli strati più ricchi e quelli meno abbienti: il più grande dell'Ue". Gli schiavi che osano ribellarsi a questo stato di cose, vittime designate della spregiudicata corsa al profitto, rischiano di essere malmenati e cacciati. Non di rado perfino uccisi.
Così l'unica norma che sopravvive a un sistema per definizione privo di regole, è quella del silenzio: gli immigrati accettano di farsi sfruttare, vinti dalla paura e dalla disperazione. Le storie di molti di loro sono state raccontate in un altro libro appena pubblicato, dal titolo inequivocabile: "Sparategli! Nuovi schiavi d'Italia", scritto dal giornalista di Redattore Sociale Jacopo Storni, con la prefazione dello storico inviato speciale del Corriere Ettore Mo. Il volume è un lungo reportage di denuncia alla scoperta di quello che viene descritto come il "Terzo mondo d'Italia", composto da baraccati, disperati della strada e perseguitati. E l'autore si concede un viaggio nelle loro vicende e fra le loro speranze, dormendo negli stessi tuguri e vivendo i medesimi drammi.
Per fare emergere, accanto ai meccanismi perversi e crudeli dello sfruttamento, anche le voci di intolleranza sempre più diffuse nell'Italia dei rancori dove ormai da anni si fa leva sulla paura per il diverso e si tenta di sterilizzare la coscienza critica dei cittadini. "Se le prostitute esistono – osserva infatti l'autore – è anche perché ci sono nove milioni di clienti abituali (italiani). Se le baraccopoli esistono è anche perché non siamo disposti ad investire per i centri d’accoglienza. Se gli schiavi esistono è anche perché il lavoro nero è consuetudine... Il Terzo mondo d’Italia è una vera emergenza umanitaria, eppure resta impalpabile. È una piaga che, diventando routine, perde la sua essenza emergenziale sconfinando talvolta nell’indifferenza".
Ma per fortuna, c'è ancora chi riesce a reagire all'omologazione della noncuranza e a ribellarsi a ogni forma di ingiustizia. Come in Puglia, a Nardò, dove è appena partita la campagna di sensibilizzazione contro il lavoro nero che vuole essere anche una provocazione: "Ingaggiami". L'iniziativa è partita dalle Onlus "Finis terrae" e "Brigate di solidarietà attiva", che gestiscono una masseria dove sono ospitati circa 300 lavoratori stagionali immigrati. I promotori, quasi a volersi sostituire alle istituzioni, hanno curato la distribuzione di un volantino in quattro lingue (italiano, arabo, inglese e francese), nel quale sono indicati i diritti essenziali che spettano ai lavoratori: assicurazione contro gli infortuni, contributi per la pensione, indennità di disoccupazione legata ad almeno 51 giornate lavorative.
Nel volantino, inoltre, sono riportate in modo trasparente le cifre che devono essere corrisposte ai lavoratori, sulla base del contratto provinciale di lavoro per l'agricoltura: 8,82 euro all'ora per le angurie e 5.92 euro per i pomodori. Tariffe che non vengono rispettate nella gran parte dei campi di raccolta dagli imprenditori agricoli, che hanno abbassato il costo del lavoro utilizzando come paravento la crisi economica. L'esempio di "Ingaggiami" costituisce però un importante precedente, originale e coraggioso. Che si spera possa invogliare altre aziende (in agricoltura, nell'edilizia, nei servizi) ad attivarsi per rimuovere le condizioni di assoluta irregolarità che interessano, secondo le stime Istat aggiornate al 2010, circa 3 milioni di lavoratori italiani e stranieri. Un popolo di invisibili.
STOP CAPOLARATO - Video sulla condizione dei lavoratori nei settori dell'agricoltura e dell'edilizia realizzato da CGIL TV