Le maggiori difficoltà italiane, nell’attuale crisi sistemica globale, derivano da relazioni di forza internazionali, assolutamente sfavorevoli, che pesano negativamente e pesantemente sugli apparati sociali, finanziari, economici e produttivi del Paese. L’Italia deve fare i conti con deficit strutturali atavici ma l’aggravamento della sua posizione, sul proscenio mondiale, discende dal clima e dalle evoluzioni geopolitiche, avverso alle quali non sono state attivate reazioni e risposte adatte.
La caduta degli indici borsistici e l’allargarsi della forbice tra i differenziali di rendimento dei titoli di Stato (lo spread), è la faccia esterna di problematiche molto più complicate che nessuno prende correttamente in considerazione. Le crisi economiche sono terremoti di superficie scatenati dallo spostamento e smottamento del terreno in profondità, e questo subbuglio sotterraneo, questo scontro e sfregamento di placche, è il prodotto di scelte strategiche e ricollocamenti politici dovuti all’insorgere di nuove istanze sistemiche, in una fase storica di transizione. C’è chi si rende protagonista di tale movimento e c’è chi lo subisce. Noi siamo tra chi patisce ogni conseguenza.
Sicuramente, in una società di tipo capitalistico, dove la gran parte di ciò che è prodotto è merce e si deve scambiare mediante denaro, la crisi inizia manifestandosi nella sfera finanziaria, quella che prende il davanti della scena. Tuttavia, da questo non deriva che la causa principale della débâcle sia di origine economica. Se saltano gli equilibri finanziari e monetari non è per ragioni intrinseche all’economia ma per fattori di conflittualità geopolitica.
Le nostre criticità non scaturiscono da contingenze sfortunate ed aleatorie, non almeno in maniera preponderante, ma sono il risultato di decenni di scelte errate e valutazioni inadeguate in merito alle mutazioni in atto sullo scacchiere planetario, già all’indomani degli esiti finali della Guerra Fredda.
A sbagliare sono state classi dirigenti orbe di visione storica, al cospetto di avvenimenti unici ed irripetibili; élite parassitarie che si sono garantite la permanenza in sella allo Stato svendendo il patrimonio pubblico a concorrenti esteri, per un tozzo di pane, evitando accuratamente di dialogare con le urgenze dell’èra, presenti e future. Gruppi direttivi neofiti, le seconde file dell’arco parlamentare che fu, hanno innalzato la bandiera costituzionale per meglio affossarla, hanno ballato sulle ceneri dei più qualificati predecessori, rinnegando di esserne stati allievi, per autolegittimarsi in assenza della medesima spinta ideale, dopo i nefasti delle mani pulite e delle zucche vuote con la coscienza più sporca.
La retorica delle privatizzazioni indispensabili, tanto in voga al principio dei ’90, posteriormente alle annate di sperperi assistenziali ed elargizioni clientelari delle risorse statali, non le scagionerà mai dalle loro responsabilità, che sono gravissime, poiché una cosa è vendere asset marginali, razionalizzare le spese, segare rami d’attività improduttivi, e non strategici, per perseguire più elevati obiettivi, avendo presente un quadro di opportunità, di sviluppo, di innovazione e di crescita, ovvero ambendo ad un maggior benessere comunitario, un’altra è liquidare l’argenteria di famiglia per dimostrare la propria sottomissione ai vecchi e nuovi padroni del vapore, a loro volta sostenuti da fameliche cricche sopranazionali.
Se si vanno a guardare le liquidazioni dell’impresa pubblica dei lustri scorsi, non vi si troverà un solo vero affare ad un prezzo onesto, ma soltanto tante menzogne riguardo a fantomatici capitani coraggiosi salvatori della propria panza, imprescindibili esigenze di dismissione per rimpinguare le casse vuote, salvo raschiare successivamente anche il fondo del barile e gestioni a perdere come mai visto. Oggidì, siamo diventati davvero cittadini dissoluti di Sodoma, come ci ricordano in alto loco continentale, ma non dimentichiamo di provenire da ben altra e temuta Sparta. Scaricare, invece, il peso dei guai odierni su chi è venuto prima, con la surrettizia frase sventolata in ogni occasione: “è colpa del precedente governo e dei suoi uomini”, andando a ritroso fino alla notte dei tempi, è tipico degli imbelli e dei corrotti.
Detto più chiaro, mentre il mondo cambiava rapidamente, scosso da eventi drammatici (caduta del Muro di Berlino, dissoluzione dell’URSS, unipolarismo Usa e svelto ritorno del multicentrismo, conseguente all’emergenza e riemergenza di altri attori geopolitici sulla scena mondiale), i percorsi (collettivi e personali) e le idee (generali e soggettive), di chi avrebbe dovuto guidarci fuori dal guado, con soluzioni moderne ed originali, generate da valori e scopi progressivi, si pietrificavano.
L’inazione e la confusione vennero a lungo celate da apologhi integrativi, multilateralisti, cooperativi, solidaristici ecc. ecc. che prendevano il posto delle ideologie manichee appena consumatesi.
In sostanza, dunque, la presunta fine dell’età delle grandi narrazioni giunse cavalcando un romanzo ancora più immaginario ed impraticabile. Presto, ci saremmo risvegliati e scontrati con altre durezze storiche dello stesso materiale, se non più solide, di quelle appena superate.
L’UE in ampliamento scriteriato al fine di inglobare comunità provenienti dall’ex sistema socialista per sottrarle all’influenza russa, l’allargamento della Nato ai medesimi paesi, gli altri organismi mondiali di gestione falsamente unanime dell’economia e delle relazioni diplomatiche, la globalizzazione, i diritti umani e ambientali, tante belle parole accompagnate da altrettanta propaganda ed effetti collaterali, sempre esclusi a priori e puntualmente verificatisi, che produssero non quell’eden finalmente pacificato e parificato nelle libertà sociali, di cui blateravano gli intellettuali di regime (la storia non è finita, la loro credibilità sì), ma tutto il suo contrario. Fu ed è l’averno, con l’esportazione impossibile della democrazia, le guerre al terrore che addizionano paura anziché sopirla (Afghanistan, Iraq), l’accumularsi del settarismo su basi etnico-confessionali, le divisioni culturali neganti i punti di contatto anche laddove esistenti. Elementi che segnalano una strategia di unilateralismo “imperiale”, irrealizzabile nella incipiente fase multipolare. Per questo salgono i tributi di sangue in ogni luogo d’instabilità, trascinando nel caos anche quei territori che una certa saldezza l’avevano conquistata a fatica. Penso, soprattutto, al Mediterraneo e ad alcuni Paesi dell’Africa araba.
Senza confutare e opporsi alla conformazione concreta della situazione che contraddiceva i primigeni proclami universalistici, e che discordava con i nostri interessi nazionali, siamo rimasti agganciati al carro occidentale ma in posizione sempre più subordinata e dipendente, accettando il ruolo di figurante senza battute, imposto da alleati prepotenti, impropriamente definiti amici dai nostri governanti senza coraggio.
Poiché subiamo questi rapporti di forza senza incidere sulla loro formazione e diramazione, la ripresa, inclusa quella economica, che è un aspetto delle problematiche complessive qui abbozzate, sicuramente non quello determinante, non è fattibile e mai lo sarà, fintantoché persisterà questa situazione di passività generale – meglio sarebbe dire di effettiva sudditanza dei nostri vertici statali a diktat esterni – aggravata dalla presenza di “partiti dello straniero” interni, trasversali ai cosiddetti schieramenti liberali e riformisti.
E, qui, ci troviamo finalmente dinanzi alla disputa realmente impellente, allo spartiacque epocale. Non riusciamo a venire fuori dal vicolo cieco in cui ci siamo cacciati perché siamo governati da antiitaliani che prendono ordini dalle capitali estere per amministrare Roma, derubricando i destini dei connazionali.
Questi autentici nemici della “patria” considerano la propria perpetuazione verticale, con spartizione degli incarichi e delle funzioni pubbliche, più importante della stessa esistenza della nazione. Ciò lo riscontriamo quotidianamente nel dibattito politico, assorbito da temi e problemi inessenziali, che non mettono mai in questione le decisioni calate dall’alto, dagli organismi europei ed atlantici, i quali ci trattano da paria e da carne da macello.
Ed è così che l’UE diventa, per i nostri politici arroccati dietro presunte logiche monetarie e unitarie irreversibili (parola di Draghi, Monti ed altri), il penultimo rifugio delle canaglie, essendo l’ultimo ancora il rassemblement di organismi militari e finanziari di ispirazione statunitense, dalla Nato al FMI ecc. ecc., consorziate con le varie massonerie sovracontinentali (Bilderberg, Trilateral ecc. Ecc.)
Chi nega l’ evidenza non conosce la Storia dell’Italia, recente e passata, da quella pre-unitaria, a quella post-unitaria fino all’edificio repubblicano, impastato con la calce di influenze forestiere non benevoli, né disinteressate (non trattiamo in questa occasione, ovviamente, di periodi più antichi, quando gli eserciti stranieri marciavano direttamente sul nostro suolo e si spartivano terre e bottini manu militari).
Come tutti dovrebbero sapere, i rapporti internazionali influenzano le agende delle formazioni partitiche in ogni spazio nazionale. Questo, soprattutto, in stagioni di caos geopolitico, quale quella in atto, dove si sta verificando la perdita di egemonia, relativa e non ancora assoluta, del polo dominante (gli Usa), a vantaggio di altre aree in recupero di potenza (Cina, Russia, e subordinatamente Brasile, India, ecc. ecc.). Detta situazione di multipolarismo fa saltare molti equilibri poiché viene a mancare quel centro regolatore che per una lunga fase, almeno nell’area occidentale, aveva garantito, in cambio di un appoggio incondizionato contro il comunismo, benessere economico e pace sociale.
Ma, stando diversamente le cose, nell’attuale congiuntura mondiale (la quale potrebbe durare a lungo, con buona pace di chi pensa di uscire dalla crisi già nel 2013), un eccesso di passività nella riedificazione dei rapporti internazionali (che sono, in primo luogo, rapporti di forza), comporta, per le soggettività nazionali lasciatesi perifericizzare, una sottrazione permanente di sovranità.
Da questa serie di fatti si può giungere ad alcune conclusioni che non ci fanno per nulla piacere.
In Italia imperversano i cosiddetti “partiti dello straniero”, organismi che delegano ai centri di comando europei e atlantici il futuro dei propri concittadini, rinunciando alla capacità di decidere autonomamente del proprio destino.
I partiti dello straniero, oramai quasi tutti, li riconoscerete immediatamente dalle loro agende programmatiche in cui abbondano i riferimenti all’incontestabile partenariato euro-atlantico e i proclami di adesione incondizionata ai dettami dell’UE. I partiti dello straniero ripetono come una nenia, quando devono dissimulare la loro impotenza, “ce lo chiede l’Europa, l’Onu, la Nato” e così via, quasi ci trovassimo al cospetto di infallibili dèi. In tal maniera, muore la politica nazionale, sostituita dalla delega internazionale, senza che il popolo si sia mai espresso su siffatta cessione di autodeterminazione. Ancora, i partiti dello straniero li riconoscerete da come si peritano di presentarsi al pubblico, quali forze della responsabilità e della sobrietà. Quest’ultima è la manovra di copertura più adoperata da simile “borghesia compradora” per reprimere le energie vitali della società e per meglio adempiere alla sudditanza economica e politica verso nazioni o gruppi di nazioni egemoniche.
Da chi sceglierete di farvi rovinare, data l’assoluta omogeneità di “sviste” istituzionali, dopo le prossime elezioni? Chi vincerà? Perderà l’Italia, questo è il vero risultato scontato.