Magazine Lavoro
Il nome di Bruno Trentin è riecheggiato spesso negli ultimi giorni, a proposito dell’alleanza stipulata a Torino fra i sindacati e la Confindustria di Giorgio Squinzi. Un’alleanza tesa a esercitare una pressione incisiva sul governo, almeno su quello del futuro, affinché finalmente si attuino scelte in campo economico e sociale capaci di determinare un’inversione di tendenza nell’economia del paese.
È stato assegnato a questa comune volontà il titolo di “patto dei produttori”, o addirittura “patto di fabbrica”. Addebitando proprio allo scomparso segretario della Cgil la paternità di tali definizioni. Un’affermazione solo in parte vera. È assodato che Trentin, fin dal titolo dato a un suo lontano libro, Da sfruttati a produttori (De Donato, 1977), ha usato non il termine “salariato” ma, appunto, “produttore”. Come a sottolineare il senso di una strategia che voleva fosse riconosciuto al lavoratore non il tradizionale ruolo di sottoposto, ma quello di una persona che contribuiva in modo decisivo alle fortune dell’impresa. Non compare però in quel volume la parola “patto” mentre c’era, come spiega Michele Magno nel libro Bruno Trentin. Lavoro e libertà (Ediesse), un progetto incentrato “sull’assunzione della figura del lavoratore come persona, con le sue esigenze professionali, di autonomia, d’istruzione e di salute, con le sue libertà e con la volontà di realizzarsi anche nel proprio lavoro”. E si prospettava semmai un patto di solidarietà tra diversi, “quello che riesce a unire i deboli con il maggior numero possibile di forti”. Così Trentin parla di un sindacato capace di anticipare, contrastandole, le scelte del capitale e rivendicare “al posto del capitale una politica di riconversione o di diversificazione produttiva” nonché di “alleanza con questa o quella componente del fronte imprenditoriale”.
Trentin mette però in guardia dai “corporativismi reciproci”. Pericoli di questa natura, scrive, si sono più volte affacciati “sotto la forma di un’intesa esplicitamente avanzata dal grande capitale fra le forze produttive e contro le forze parassitarie e cioè di una sorta di patto corporativo (…)”. Magari a difesa “di un vecchio apparato produttivo con le sue storture e le sue rendite a danno di uno sviluppo complessivo del paese”. Non “patto”, dunque, ma “alleanze” a favore di scelte innovative, di un progetto innovativo. Respingendo così, come spiega ne La città del lavoro, quanti giustificano qualsiasi tipo di alleanza “funzionale all’accesso al governo”. Trentin cita a questo proposito proprio le formule tipo “i cosiddetti ceti medi, i partiti democratici e popolari, l’alleanza dei produttori”. Semmai l’ex segretario della Cgil insiste su “la pattuizione di un potere di codecisione sulle più importanti scelte manageriali nel campo degli investimenti, della ricerca, della progettazione e dell’organizzazione del lavoro”. È quella che chiama “la cooperazione conflittuale dei lavoratori al governo dell’impresa, partendo dalla conquista di nuovi spazi di autogoverno del proprio lavoro”.
Sono temi che trovano un qualche sbocco nell’impostazione data a rivendicazioni contrattuali come quelle relative ai diritti d’informazione e alle 150 ore di apprendimento. Rivendicazioni – e conquiste – che intanto dovevano permettere ai lavoratori, attraverso i loro sindacati, di essere informati sulle scelte d’investimento e sui mutamenti nell’organizzazione del lavoro.
Quella scommessa è andata via via inaridendosi. Oggi però, quando si parla di partecipazione dei lavoratori, si dovrebbe ripartire da queste tematiche, non tanto e non solo da un coinvolgimento negli utili delle imprese o nel’inserimento di qualche rappresentante nei consigli di sorveglianza alla maniera tedesca.
E soprattutto, per parlare nel 2013 di patti o alleanze, bisognerebbe chiudere davvero la fase delle lacerazioni, come ha spiegato Susanna Camusso, degli accordi separati, di mancato rispetto delle regole di rappresentanza e democrazia. Quello che forse si sta facendo in questi giorni.
È vero comunque che nella sinistra la formula “patto dei produttori” è echeggiata più volte. Così nel titolo di un libro di Beniamino Lapadula, dirigente Cgil, La scossa: un patto tra produttori per la ripresa (Ediesse). Mentre Andrea Ricci nel suo Dopo il liberismo, proposte per una politica economica di sinistra (Fazi) ricorda come “negli anni Sessanta e Settanta la parte più illuminata dell’intellettualità borghese avanzò l’idea di un patto dei produttori, di un nuovo compromesso sociale”. E in Compagni di scuola (Mondadori) Andrea Romano si sofferma su un “aggiornamento al nuovo secolo dell’antico patto dei produttori”.
Colui che ha sempre sostenuto l’esigenza di una tale formula è però Alfredo Reichlin, dirigente storico del Pci e caro amico di Trentin, che ancora lo scorso anno, in un seminario su “Le forme della politica”, sosteneva: “Stiamo attenti a non ridurci a una testimonianza. Il cuore del conflitto non è più solo l’antagonismo tra l’impresa e gli operai. È l’insieme del mondo dei produttori, cioè delle persone che creano, pensano, lavorano e fanno impresa, che sta subendo una forma nuova di sfruttamento. Se è così, ci sono le condizioni per alleanze più larghe”.
Infine ancora Bruno Trentin, nel 2005, poco prima del grave incidente stradale che lo portò poi alla scomparsa, a Bruno Gravagnuolo dell’Unità, che gli chiedeva “Nuovo patto dei produttori?”, risponde: “Un patto è possibile, ma con le imprese innovative. Con quelle imprese che riconoscono nel lavoro un fattore chiave per la riuscita delle sue attività”.
Bruno Ugolini
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